domenica 22 maggio 2022

Il sermoncino di Molinari



(m.m.) «Non è difficile individuare nel variegato fronte della protesta populista e sovranista in più Paesi, con molteplici diramazioni che includono anche la galassia No Vax, gli interlocutori naturali delle autarchie. Perché il punto di convergenza fra populisti e autarchie lo ha espresso con chiarezza Vladimir Putin nell'intervista al Financial Times del giugno 2017, quando parlò di democrazia liberale destinata a diventare obsoleta. Dunque, chi non crede nella democrazia liberale sta con Putin mentre chi la vuole difendere, migliorare e magari rigenerare gli si oppone con fermezza. Ecco perché bisogna prendere sul serio il leader del Cremlino quando afferma, nel discorso del 21 febbraio, che intende riconsegnare alla Russia il proprio legittimo posto in Europa, andando dunque ben oltre Donbass e Crimea. Nella sfera di influenza che Putin ha l'ambizione di costruire non ci sono dunque solo i Paesi confinanti che ha invaso, Georgia, Ucraina e Transnistria, o che minaccia ma anche quei movimenti, partiti e leader sovranisti-populisti euroamericani che intende legare a sé per portare scompiglio in Occidente, proprio come previsto dalla teoria della guerra ibrida del generale Valery Gerasimov. A cui la campagna italiana sta andando, a conti fatti, assai meglio del conflitto ucraino». Questo è il passaggio centrale dell'editoriale firmato oggi 22 maggio 2022 in pagina 29 da Maurizio Molinari direttore di Repubblica. Le affermazioni di Molinari si possono analizzare in lungo in e in largo.

Andando al sodo però affermare che «chi non crede nella democrazia liberale sta con Putin... » è un paralogismo (Treccani: «ragionamento fallace, ossia falso ma con apparenza di verità»). È pieno di persone in Occidente che criticano la democrazia liberale perché classista e imbavagliata dal potere economico. Ergo, verrebbe da dire, chiunque ambisca a un mondo diverso da quello frutto di visioni più o meno imperialiste, più o meno «economiciste» (occidentali, cinesi o neozariste che siano queste ultime) diventa d'emblée un putiniano. Lo stratagemma argomentativo dell'autore del corsivo è un ferro vecchio della retorica. Tuttavia l'incedere logico di quanto vine scritto oggi su Repubblica risulta così sgangherato che è facile pensare che nemmeno Molinari, persona acuta, creda davvero fino in fondo in ciò che va scrivendo. Vi immaginate se qualcuno scrivesse che siccome Hiller amava la montagna allora chi ama la montagna è nazista? Ci sarebbe da ridere.

E dunque, perché Molinari s'è infognato in una serie di considerazioni alla fine così banali? Tutto fa sembrare che quell'editoriale, più che il libero ragionamento di un direttore di giornale sulla democrazia e sulla guerra, sia un monito, un sermoncino domenicale cifrato, inviato a qualcuno da parte di qualcun altro. Però è proprio grazie a cotillon come questi che molte persone, non tutte per carità, finiscono per abbracciare acriticamente chiunque ambisca a rappresentare una visione del mondo alternativa a quella occidentale: indipendentemente da che cosa ciò possa davvero significare e da quanto valore abbia davvero l'alternativa proposta di volta in volta. C'è un ultimo aspetto però che va considerato a parte. Nella sua digressione Molinari usa la parola «autarchie» sovrapponendo questo concetto a quello di autocrazie, che poi sono parenti delle dittature. A meno di un errore di lessico da matita blu, l'autarchia, che è una nozione che ha a che fare con l'autosufficienza di beni, servizi e materie prime, non c'entra alcunché con l'autocrazia. A meno che non si rimandi forzatamente a ricordi legati al regime fascista. Ma siccome l'autarchia (che alla lettera significa niente di più che padronanza di sé medesimi) viene spesso connotata come antagonista concettuale della globalizzazione, è chiaro che il sospetto che si voglia instillare un parallelismo occulto per colpire chiunque critichi la globalizzazione, i cui effetti nefasti sulle parti più deboli del pianeta e della società peraltro, sono entrate nella narrazione comune da un bel pezzo.

sabato 9 aprile 2022

Mense ospedaliere: sotto inchiesta «il monopolio» di Serenissima

Se l'appetito viene mangiando, Serenissima ristorazione è la riprova che, di appalto in appalto, è arrivata al quasi monopolio della mense ospedaliere del Veneto. A stoppare quella corsa prima il Consiglio di Stato e poi l'Anac, l'Autorità anticorruzione, anche se a poco sarebbe servito. Ma poi a metterci il naso è stata la procura padovana.

E ora il pm Silvia Golin ha chiuso formalmente l'inchiesta, smascherando, almeno stando al capo d'accusa, il sistema per aggirare le regole e accaparrarsi una gara da 110 milioni di euro per la ristorazione ospedaliera. Già le regole ovvero quei paletti che, almeno sulla carta, avrebbero dovuto evitare a Serenissima-pigliatutto di lasciare i concorrenti sempre alla porta.

L'INCHIESTA
Rischiano il processo in otto: cinque persone tra management e proprietà di Serenissima spa e la controllata Euroristorazione, a vario titolo, accusati di turbativa d'asta, falso ideologico e truffa; con loro anche il superdirigente nel campo della Sanità italiana Domenico Mantoan, all'epoca direttore della Sanità veneta, con l'allora direttrice di Azienda Zero, Patrizia Simionato, e l'amministrativa Stefania Fasolo prestata dall'Ulss vicentina alla Fondazione Ssp, Scuola di sanità pubblica. A questi ultimi è contestato il concorso in induzione indebita a dare o a promettere utilità.

LE ACCUSE
A mettere nei guai il patron di Serenissima Mario Putin e i suoi manager la chiacchieratissima gara d'appalto per l'affidamento del Servizio di ristorazione per le Aziende sanitarie del Veneto indetta con la delibera 313 del 2019 dal direttore di Azienda zero, Simionato. La gara è suddivisa in sei lotti e si conclude nel 2020: Serenissima Ristorazione ne vince tre (100 punti su 100 a Rovigo e a Padova, 95 a Venezia); gli altri due (Treviso e Bassano-Asiago-Schio) vanno a Euroristorazione (100 e 97,92 punti); l'ultimo lotto relativo all'ospedale bellunese non è assegnato per mancanza di offerta: ecco il punto. Dopo i ricorsi e controricorsi di Dussmann Service, colosso rimasto sempre a bocca asciutta (all'Authority anticorruzione aveva scritto: «Serenissima detiene il 90 per cento del mercato delle mense ospedaliere nel Veneto, un dato anomalo»), Anac aveva imposto di riscrivere il capitolato per inserire un «vincolo di aggiudicazione per un massimo di tre lotti» inserito nel disciplinare d'appalto.

Tutto regolare? Niente affatto: secondo il pm Golin, Serenissima ed Eurostorazione si sarebbero accordati per nascondere il fatto che, tra le due società, il «centro decisionale» era unico, in capo a Mario Putin. A dimostrarlo le cariche ricoperte, le quote societarie, la formulazione delle offerte concordate in via preventiva. Euroristorazione, infatti, sarebbe controllata da Serenissima tramite Vegra Camin. Da qui la turbativa d'asta e il falso: i manager avevano attestato di non trovarsi in una situazione di controllo (o di controllato) rispetto agli altri partecipanti. Quanto alla truffa, Faggion, Ongaro e Garbin avrebbero fatto lavorare 5 dipendenti di Serenissima e 3 di Euroristorazione pur beneficiari della cassa integrazione Covid per un danno all'Inps di 6.703 euro.

Le 11mila pagine dell'indagine, con migliaia di intercettazioni telefoniche, non hanno risparmiato Mantoan: con una delibera del 4 agosto 2020, indirizzata a Simionato (Azienda Zero) dispose l'elargizione di 20 mila euro alla Fondazione Ssp (Scuola di Sanità pubblica) sollecitata ripetutamente al telefono dall'impiegata Stefani. Una generosità giustificata (si fa per dire, almeno secondo il pm) dalla relazione affettiva tra Mantoan e l'impiegata.

UN LEGALE
Per altre posizioni è stata chiesta l'archiviazione. Tra questi, un noto avvocato indagato per (presunte) pressioni su Azienda zero con l'obiettivo di moltiplicare i suoi ben pagati incarichi professionali. Il pm ha ritenuto che non ci siano elementi per esercitare l’azione penale: l'ultima parola al gip.

da Il Mattino di Padova del 9 aprile 2022 in pagina 14; servizio a firma di Cristina Genesin 

giovedì 3 marzo 2022

Da Le Iene un messaggio serio per il mondo ambientalista


(m.m.) Ieri Le Iene, popolare programma di Itala uno, ha mandato in onda un approfondimento firmato da Marco Fubini e da Matteo Viviani, che deve essere incorniciato. La relazione stretta (sul cui perimetro la discussione è amplissima) che c'è tra riscaldamento globale, fonti fossili, correlazione tra risorse energetiche fossili e conflitti geopolitici, architettura, pianificazione territoriale è un fattore noto agli esperti e al mondo ecologista: ma la sua divulgazione, specie in Italia, è da sempre un problema ostico. Il merito di Fubini e Viviani è stato quello di rendere concetti profondi e complessi in maniera rigorosa ma effervescente: ritmo incalzante, montaggio ben cadenzato, immagini che vanno sempre a bersaglio, questioni pratiche e dossier di portata generale, sono il mix ben dosato che ha fatto della puntata de Le Iene una puntata riuscita. Una puntata che dovrebbe fare da sprone ad un bel pezzo del mondo ambientalista italiano, che dovrebbe liberarsi di un armamentario comunicativo e in parte ideale alla canna del gas. Questo approccio, tranne qualche eccezione, non è in grado di accogliere i giovani, che sono poi le persone che per prime, sperimenteranno la bancarotta ambientale che sul pianeta Terra prende corpo giorno dopo giorno. Ben inteso: il fatto che il lavoro de Le Iene sia fruibile e rigoroso non significa che sia facile. Anzi, rendere comprensibile ciò che è complesso, è molto difficile. Ma senza interfacce i contenuti, anche i più nobili, sono solo pensieri nel vuoto.

martedì 15 febbraio 2022

Caso Kersevan, un funzionario comunale vicentino rischia di inciampare a villa Lattes


Ieri il Comune di Vicenza con una breve nota, che peraltro contiene alcune dichiarazioni del sindaco Francesco Rucco, ha annunciato la volontà di revocare il permesso di utilizzare la sala municipale di via Revel. Il motivo? L'evento programmato dagli organizzatori prevede la presenza della relatrice Alessandra Kersevan, considerata da molti ambienti di centrodestra come una scrittrice «negazionista» in materia per quanto riguarda il dramma delle Foibe. 

Ora al di là della querelle politica che l'annuncio di palazzo Trissino ha già scatenato un eventuale diniego definitivo da parte dell'amministrazione presenta anche un aspetto legale. In ragione della riforma che porta il nome di legge Bassinini le Camere per quanto riguarda la pubblica amministrazione hanno definitivamente sancito la differenziazione degli ambiti di pertinenza degli organi elettivi o politici e quelli in capo ai funzionariato.

Nel caso di specie, ne parla anche Vicenzatoday.it, il funzionario deputato a rilasciare il permesso per l'utilizzo della sala deve semplicemente limitarsi ad appurare che il richiedente formuli correttamente l'istanza, che siano pagati gli oneri e che eventuali prescrizioni di legge siano rispettato. Al funzionario pubblico infatti non spetta sindacare sui contenuti dell'incontro ospitato nello spazio pubblico a meno che non ci siano violazioni della legge: per esempio l'utilizzo di una sala comunale non può essere chiesto per ospitare una bisca clandestina o un centro di smistamento di droghe pesanti.

Comunque la situazione a palazzo Trissino si fa sdrucciolevole. Se dopo un eventuale diniego il soggetto che ha fatto domanda per l'utilizzo della sala (in questo caso il partito della Rifondazione comunista) dovesse formalmente diffidare il segretario comunale o il funzionario dal tornare sui propri passi e se nonostante ciò il diniego permanesse colui che firma quell'atto, oltre che il pubblico ludibrio, rischia una incriminazione quanto meno per attentato ai diritti politici del cittadino. Infatti l'articolo 294 del codice penale stabilisce che chiunque «con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni». Sempre in ambito penale altri rischi potrebbero giungere da una eventuale incriminazione per violenza privata e rifiuto in atti d'ufficio.

Ad ogni buon conto che la presa di posizione assunta in queste ore, sotto sotto, convinca assai poco il sindaco Rucco è abbastanza chiaro per chi sa leggere tra le righe. Come è chiaro che l'uscita del primo cittadino sia in realtà dovuta ad un aut aut di quella parte della maggioranza che fa riferimento alla bassanese Elena Donazzan (assessore regionale alla formazione e pezzo da novanta di Fdi nel Veneto). Se però si compulsano con attenzione le parole di Rucco si potrà leggere un passaggio illuminante in cui parla di «... presa d'atto che tale inconciliabilità rende di fatto incompatibile l'utilizzo di spazi pubblici di proprietà comunale per la diffusione di idee e teorie che risultano in aperto contrasto non solo con una storiografia ormai consolidata, ma anche con autorevoli pronunciamenti istituzionali...». Al di là del fatto che le argomentazioni della Kersevan sono tutt'al più dibattute o controverse per un fronte più o meno connotato e che le competenze della giunta berica stanno alla storiografia come Segio Vastano sta a Clint Eastwood, è bene non distogliere l'attenzione dalle parole di quella nota. 

La prima espressione da considerare è «di fatto». Rucco che di mestiere fa l'avvocato sa bene che non esiste nessuna base giuridica per il diniego che si presume sia già stato opposto o che sarà opposto dal funzionario. E infatti si guarda bene dall'usare l'espressione «di diritto». Preoccupato per questo scivolone logico lo stesso primo cittadino, quasi fosse una excusatio non petita, fa infatti precedere il suo assunto da un passaggio che denota il suo imbarazzo per qualcosa che in fondo non sembra condividere: «... non si tratta, beninteso, di un atto di censura ai danni della libertà di pensiero e di espressione garantita dalla Costituzione...». Con una uscita del genere il primo cittadino ha cercato chiaramente di dare una copertura politica ad un diniego le cui eventuali conseguenze penali però saranno sul solo groppone di quel funzionario che si assumerà la responsabilità della firma (a meno di una clamorosa chiamata in correità da parte di quest'ultimo).

Ma sul piano più storico-politico quali riflessioni possono scaturire da una vicenda del genere? Io credo che sia giunto il tempo che presso le sale di un ente pubblico si debba potere ospitare un qualsiasi evento o dibattito. Escludere qualcuno in base a ragioni di opportunità è pericoloso e sbagliato. In queste ore l'Anpi, in modo sacrosanto peraltro, sta dando contezza del suo sdegno. Il problema però è che la libertà di espressione del proprio pensiero deve valere sempre. Il dramma delle Foibe (ne parlano in modo chiaro e accessibile Nova Lectio e Alessandro Barbero) è un fatto storico, come un fatto storico sono le atrocità italiane (una pagina nera della storia col quale il Belpaese su input degli Stati Uniti che coi fascisti ci sono andati a braccetto e come) che hanno in parte scatenato quel risentimento al netto delle tensioni già in essere al di là e al di qua del confine.

La questione è un'altra oggi. Si arriverà mai ad un momento nuovo della storia in cui a Villa Lattes si potrà ospitare la Kersevan di turno (o «un Giampaolo Pansa qualunque» perfino un Marcello Veneziani qualunque parafrasando lo storico Alessandro Barbero) senza che ci sia una amministrazione più o meno orientata che neghi la sala a tizio o a caio, magari vicino alla destra o alla sinistra? «Non sono d'accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo» scrisse il secolo scorso la saggista britannica Evelyn Hall. Nessuno sembra prendere seriamente questo concetto, l'unico che abbia un senso autentico in querelle di questo tipo. Si preferiscono gli scontri tra correnti opposte in modo che questa continua querelle tra filo-fascisti e filo-comunisti alimenti un ciclone nella calma del cui occhio il capitale agisce indisturbato.

Propongo ora un sondaggio concettuale. Nelle città italiane oltre alle vie intitolate ai martiri del nazifacismo, del comunismo, delle foibe quante strade o piazze sono dedicate? E quante invece sono dedicate ai martiri del colonialismo (la strage dei pellerossa magari dice qualcosa), del liberismo, dell'industrialismo, del capitalismo e della globalizzazione? Il fattore economico e quello legato alla volontà di potenza (abilmente mascherati da religione, ideologia, consumismo fino alla paccottiglia in salsa social network dei giorni nostri) sono di gran lunga i maggiori responsabili della gran parte dei drammi patiti in ogni dove e in ogni quando dagli oppressi ad opera degli oppressori, ma questa cosa non si deve dire. Perché non si può dedicare una piazza ai morti causati dal libero mercato e dalle sue connaturate distorsioni per esempio?

In ultimo, una piccola annotazione agli alfieri di una certa sinistra. Smettetela di rompere le scatole avanzando l'idea che certi spazi di discussione debbano essere negati a chi strizza l'occhio al fascismo. Le cazzate si combattono con gli argomenti o col sarcasmo. Solo in caso di violenza si risponde con la violenza. Il primo che dice «ma la storia italiana ha in Costituzione bla bla bla» dice una sciocchezza. È una sciocchezza, tanto quanto la dichiarazione di Rucco che citando due personaggi mediocri della storia politica italiana come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, due soggetti ascrivibili al centrosinistra ma anche alla sfera d'influenza americana, cerca, più o meno goffamente, di scambiare il sacrosanto riconoscimento del dramma delle foibe con voglia di un pezzo della destra del Belpaese di cancellare l'infamia della italianizzazione forzata e del colonialismo d'accatto portati avanti prima dal Regno d'Italia e poi da quella specie Tangentopoli con fez e manganello, cara ad industriali, agrari, mafie nonché chiesa cattolica «e parenti loro», che è stato il fascismo.

Marco Milioni