martedì 15 febbraio 2022

Caso Kersevan, un funzionario comunale vicentino rischia di inciampare a villa Lattes


Ieri il Comune di Vicenza con una breve nota, che peraltro contiene alcune dichiarazioni del sindaco Francesco Rucco, ha annunciato la volontà di revocare il permesso di utilizzare la sala municipale di via Revel. Il motivo? L'evento programmato dagli organizzatori prevede la presenza della relatrice Alessandra Kersevan, considerata da molti ambienti di centrodestra come una scrittrice «negazionista» in materia per quanto riguarda il dramma delle Foibe. 

Ora al di là della querelle politica che l'annuncio di palazzo Trissino ha già scatenato un eventuale diniego definitivo da parte dell'amministrazione presenta anche un aspetto legale. In ragione della riforma che porta il nome di legge Bassinini le Camere per quanto riguarda la pubblica amministrazione hanno definitivamente sancito la differenziazione degli ambiti di pertinenza degli organi elettivi o politici e quelli in capo ai funzionariato.

Nel caso di specie, ne parla anche Vicenzatoday.it, il funzionario deputato a rilasciare il permesso per l'utilizzo della sala deve semplicemente limitarsi ad appurare che il richiedente formuli correttamente l'istanza, che siano pagati gli oneri e che eventuali prescrizioni di legge siano rispettato. Al funzionario pubblico infatti non spetta sindacare sui contenuti dell'incontro ospitato nello spazio pubblico a meno che non ci siano violazioni della legge: per esempio l'utilizzo di una sala comunale non può essere chiesto per ospitare una bisca clandestina o un centro di smistamento di droghe pesanti.

Comunque la situazione a palazzo Trissino si fa sdrucciolevole. Se dopo un eventuale diniego il soggetto che ha fatto domanda per l'utilizzo della sala (in questo caso il partito della Rifondazione comunista) dovesse formalmente diffidare il segretario comunale o il funzionario dal tornare sui propri passi e se nonostante ciò il diniego permanesse colui che firma quell'atto, oltre che il pubblico ludibrio, rischia una incriminazione quanto meno per attentato ai diritti politici del cittadino. Infatti l'articolo 294 del codice penale stabilisce che chiunque «con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni». Sempre in ambito penale altri rischi potrebbero giungere da una eventuale incriminazione per violenza privata e rifiuto in atti d'ufficio.

Ad ogni buon conto che la presa di posizione assunta in queste ore, sotto sotto, convinca assai poco il sindaco Rucco è abbastanza chiaro per chi sa leggere tra le righe. Come è chiaro che l'uscita del primo cittadino sia in realtà dovuta ad un aut aut di quella parte della maggioranza che fa riferimento alla bassanese Elena Donazzan (assessore regionale alla formazione e pezzo da novanta di Fdi nel Veneto). Se però si compulsano con attenzione le parole di Rucco si potrà leggere un passaggio illuminante in cui parla di «... presa d'atto che tale inconciliabilità rende di fatto incompatibile l'utilizzo di spazi pubblici di proprietà comunale per la diffusione di idee e teorie che risultano in aperto contrasto non solo con una storiografia ormai consolidata, ma anche con autorevoli pronunciamenti istituzionali...». Al di là del fatto che le argomentazioni della Kersevan sono tutt'al più dibattute o controverse per un fronte più o meno connotato e che le competenze della giunta berica stanno alla storiografia come Segio Vastano sta a Clint Eastwood, è bene non distogliere l'attenzione dalle parole di quella nota. 

La prima espressione da considerare è «di fatto». Rucco che di mestiere fa l'avvocato sa bene che non esiste nessuna base giuridica per il diniego che si presume sia già stato opposto o che sarà opposto dal funzionario. E infatti si guarda bene dall'usare l'espressione «di diritto». Preoccupato per questo scivolone logico lo stesso primo cittadino, quasi fosse una excusatio non petita, fa infatti precedere il suo assunto da un passaggio che denota il suo imbarazzo per qualcosa che in fondo non sembra condividere: «... non si tratta, beninteso, di un atto di censura ai danni della libertà di pensiero e di espressione garantita dalla Costituzione...». Con una uscita del genere il primo cittadino ha cercato chiaramente di dare una copertura politica ad un diniego le cui eventuali conseguenze penali però saranno sul solo groppone di quel funzionario che si assumerà la responsabilità della firma (a meno di una clamorosa chiamata in correità da parte di quest'ultimo).

Ma sul piano più storico-politico quali riflessioni possono scaturire da una vicenda del genere? Io credo che sia giunto il tempo che presso le sale di un ente pubblico si debba potere ospitare un qualsiasi evento o dibattito. Escludere qualcuno in base a ragioni di opportunità è pericoloso e sbagliato. In queste ore l'Anpi, in modo sacrosanto peraltro, sta dando contezza del suo sdegno. Il problema però è che la libertà di espressione del proprio pensiero deve valere sempre. Il dramma delle Foibe (ne parlano in modo chiaro e accessibile Nova Lectio e Alessandro Barbero) è un fatto storico, come un fatto storico sono le atrocità italiane (una pagina nera della storia col quale il Belpaese su input degli Stati Uniti che coi fascisti ci sono andati a braccetto e come) che hanno in parte scatenato quel risentimento al netto delle tensioni già in essere al di là e al di qua del confine.

La questione è un'altra oggi. Si arriverà mai ad un momento nuovo della storia in cui a Villa Lattes si potrà ospitare la Kersevan di turno (o «un Giampaolo Pansa qualunque» perfino un Marcello Veneziani qualunque parafrasando lo storico Alessandro Barbero) senza che ci sia una amministrazione più o meno orientata che neghi la sala a tizio o a caio, magari vicino alla destra o alla sinistra? «Non sono d'accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo» scrisse il secolo scorso la saggista britannica Evelyn Hall. Nessuno sembra prendere seriamente questo concetto, l'unico che abbia un senso autentico in querelle di questo tipo. Si preferiscono gli scontri tra correnti opposte in modo che questa continua querelle tra filo-fascisti e filo-comunisti alimenti un ciclone nella calma del cui occhio il capitale agisce indisturbato.

Propongo ora un sondaggio concettuale. Nelle città italiane oltre alle vie intitolate ai martiri del nazifacismo, del comunismo, delle foibe quante strade o piazze sono dedicate? E quante invece sono dedicate ai martiri del colonialismo (la strage dei pellerossa magari dice qualcosa), del liberismo, dell'industrialismo, del capitalismo e della globalizzazione? Il fattore economico e quello legato alla volontà di potenza (abilmente mascherati da religione, ideologia, consumismo fino alla paccottiglia in salsa social network dei giorni nostri) sono di gran lunga i maggiori responsabili della gran parte dei drammi patiti in ogni dove e in ogni quando dagli oppressi ad opera degli oppressori, ma questa cosa non si deve dire. Perché non si può dedicare una piazza ai morti causati dal libero mercato e dalle sue connaturate distorsioni per esempio?

In ultimo, una piccola annotazione agli alfieri di una certa sinistra. Smettetela di rompere le scatole avanzando l'idea che certi spazi di discussione debbano essere negati a chi strizza l'occhio al fascismo. Le cazzate si combattono con gli argomenti o col sarcasmo. Solo in caso di violenza si risponde con la violenza. Il primo che dice «ma la storia italiana ha in Costituzione bla bla bla» dice una sciocchezza. È una sciocchezza, tanto quanto la dichiarazione di Rucco che citando due personaggi mediocri della storia politica italiana come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, due soggetti ascrivibili al centrosinistra ma anche alla sfera d'influenza americana, cerca, più o meno goffamente, di scambiare il sacrosanto riconoscimento del dramma delle foibe con voglia di un pezzo della destra del Belpaese di cancellare l'infamia della italianizzazione forzata e del colonialismo d'accatto portati avanti prima dal Regno d'Italia e poi da quella specie Tangentopoli con fez e manganello, cara ad industriali, agrari, mafie nonché chiesa cattolica «e parenti loro», che è stato il fascismo.

Marco Milioni