I cattolici dovrebbero essere gli alleati naturali di chi non si rassegna a concepire e vivere la vita in termini esclusivamente materiali ma sente il bisogno di riscoprirne il valore spirituale. Sappiamo bene che il gregge dei fedeli, invece, tranne una minoranza di veri cristiani degni di questo nome, si contenta di un facile auto-ammonimento a non cedere alle sirene del consumismo. Una penitenza che dura il tempo della messa domenicale e si corrompe e interrompe al prossimo giro di shopping. Complice una Chiesa romana che, pur battendo sovente il chiodo della malvagità intrinseca al vuoto materialistico su cui si basa la civiltà del “benessere”, nei fatti non va al di là della pastorale generica e si guarda bene dall’attaccare frontalmente le cause che la originano e i meccanismi che la regolano, ovvero la diabolica crescita economica illimitata e la logica del massimo profitto (la scintillante durezza della Rerum Novarum, anno 1891, è purtroppo un ricordo preistorico).
A maggior ragione, dunque, vanno apprezzate come preziosissime pepite d’oro nel flusso delle banalità ridondanti quei moniti che non lasciano dubbi su quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, la posizione di un cattolico autentico nei confronti del pensiero unico consumista-produttivista. Come ormai ogni anno, in questi giorni divampa la polemica sulla legittimità morale di tenere aperti i negozi anche durante giornate festive come quella di ieri, giorno dell’Epifania, o di domenica. Ebbene, giungono come un balsamo le parole di monsignor Fabiano Longoni, delegato del patriarca di Venezia per l’azione sociale, il lavoro e la giustizia, che così si esprime: «Critichiamo continuamente le imprese cinesi che hanno registrato vertiginosi aumenti della produzione facendo lavorare i loro dipendenti dodici ore al giorno, tutti i giorni. Poi ci comportiamo allo stesso modo chiedendo ai nostri lavoratori di tenere aperti i negozi anche durante le feste. Non possiamo distruggere il nostro sistema di regole appiattendoci sulla globalizzazione» (Corriere del Veneto, 6 gennaio 2011).
Mettiamoci d’accordo con noi stessi, è l’invito di don Longoni: o restiamo fedeli alle nostre abitudini e a quel che resta delle nostre esangui tradizioni, oppure ci “cinesizziamo”, ovvero imitiamo il modello più estremo di globalizzazione degli stili di vita, e così facendo ci danniamo con le nostre stesse mani. Il prelato non le manda a dire, e le dice chiare: «Una vita e una società fondate sul consumo non hanno senso: la persona deve essere sempre al centro e le regole del lavoro devono essere in equilibrio con i diritti dei singoli».
Parole sante, è il caso di dirlo. Naturalmente pronunciate da un’angolazione religiosa, per cui l’esigenza di una pausa temporale è sentita come necessaria a «dedicarsi a Dio, stare con la propria famiglia e aiutare i fratelli che hanno bisogno di noi: i malati, i poveri e gli emarginati». Ma la consapevolezza di un declino morale è la stessa, identica quanto a urgenza interiore, che può nutrire un laico. Ed è la coscienza che se neppure si tengono questi ultimi deboli argini contro l’ansia da fatturato «la nostra società si disgregherà completamente». E il monsignore, coerente con una fede che deve parlare all’anima e non solo di “problematiche” alla moda, fa una riflessione che spazza via ogni concessione al politically correct troppo spesso sulla bocca di certi devoti: «Facciamo le battaglie in chiave ecologica per non distruggere l’ambiente, per non consumarlo o devastarlo. Bisogna imparare a fare anche delle battaglie in difesa dell’ecologia umana trovando il tempo per i propri cari e i bisognosi. Il consumo non è un dio che dispone degli individui».
Capita la lezione?
È il tempo il bene più grande, che deve servire a ciò che realmente siamo: esseri umani, cioè fatti di passioni, affetti (e solidarietà, immancabile nell’ottica cristiana). Cattolici, perché covate fra voi questi nobili pensieri e poi ci ritroviamo fra i piedi i Ruini, i Bagnasco, i Fisichella e la marmaglia di politici che seguono la dottrina di Santa Romana Chiesa solo per specular voti, privilegi di casta e affari? Forse perché i Papi hanno calato la sottana al fatto compiuto del secolarismo di Wall Street e non sanno e non vogliono essere seguaci di San Francesco, e neppure del pagano umanesimo rinascimentale di un Giulio II (che Dio l’abbia sempre in gloria)? Amen. Anzi: amen un corno.
A maggior ragione, dunque, vanno apprezzate come preziosissime pepite d’oro nel flusso delle banalità ridondanti quei moniti che non lasciano dubbi su quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, la posizione di un cattolico autentico nei confronti del pensiero unico consumista-produttivista. Come ormai ogni anno, in questi giorni divampa la polemica sulla legittimità morale di tenere aperti i negozi anche durante giornate festive come quella di ieri, giorno dell’Epifania, o di domenica. Ebbene, giungono come un balsamo le parole di monsignor Fabiano Longoni, delegato del patriarca di Venezia per l’azione sociale, il lavoro e la giustizia, che così si esprime: «Critichiamo continuamente le imprese cinesi che hanno registrato vertiginosi aumenti della produzione facendo lavorare i loro dipendenti dodici ore al giorno, tutti i giorni. Poi ci comportiamo allo stesso modo chiedendo ai nostri lavoratori di tenere aperti i negozi anche durante le feste. Non possiamo distruggere il nostro sistema di regole appiattendoci sulla globalizzazione» (Corriere del Veneto, 6 gennaio 2011).
Mettiamoci d’accordo con noi stessi, è l’invito di don Longoni: o restiamo fedeli alle nostre abitudini e a quel che resta delle nostre esangui tradizioni, oppure ci “cinesizziamo”, ovvero imitiamo il modello più estremo di globalizzazione degli stili di vita, e così facendo ci danniamo con le nostre stesse mani. Il prelato non le manda a dire, e le dice chiare: «Una vita e una società fondate sul consumo non hanno senso: la persona deve essere sempre al centro e le regole del lavoro devono essere in equilibrio con i diritti dei singoli».
Parole sante, è il caso di dirlo. Naturalmente pronunciate da un’angolazione religiosa, per cui l’esigenza di una pausa temporale è sentita come necessaria a «dedicarsi a Dio, stare con la propria famiglia e aiutare i fratelli che hanno bisogno di noi: i malati, i poveri e gli emarginati». Ma la consapevolezza di un declino morale è la stessa, identica quanto a urgenza interiore, che può nutrire un laico. Ed è la coscienza che se neppure si tengono questi ultimi deboli argini contro l’ansia da fatturato «la nostra società si disgregherà completamente». E il monsignore, coerente con una fede che deve parlare all’anima e non solo di “problematiche” alla moda, fa una riflessione che spazza via ogni concessione al politically correct troppo spesso sulla bocca di certi devoti: «Facciamo le battaglie in chiave ecologica per non distruggere l’ambiente, per non consumarlo o devastarlo. Bisogna imparare a fare anche delle battaglie in difesa dell’ecologia umana trovando il tempo per i propri cari e i bisognosi. Il consumo non è un dio che dispone degli individui».
Capita la lezione?
È il tempo il bene più grande, che deve servire a ciò che realmente siamo: esseri umani, cioè fatti di passioni, affetti (e solidarietà, immancabile nell’ottica cristiana). Cattolici, perché covate fra voi questi nobili pensieri e poi ci ritroviamo fra i piedi i Ruini, i Bagnasco, i Fisichella e la marmaglia di politici che seguono la dottrina di Santa Romana Chiesa solo per specular voti, privilegi di casta e affari? Forse perché i Papi hanno calato la sottana al fatto compiuto del secolarismo di Wall Street e non sanno e non vogliono essere seguaci di San Francesco, e neppure del pagano umanesimo rinascimentale di un Giulio II (che Dio l’abbia sempre in gloria)? Amen. Anzi: amen un corno.
Alessio Mannino
da www.ilribelle.com del 6 gennaio 2010
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