Si parla tanto, forse troppo al giorno d’oggi, di “radici”, di “identità”, di “tradizioni”. Siamo abituati anche a inseguire queste chimere di festa in festa, di manifestazione in manifestazione, tra improbabili bardi celti e dubbi cavalieri medievali, sagre gastronomiche dai sospetti menù e insopportabili comizianti. Diciamo la verità: è un gioco che ormai ci è venuto a noia. Eppure, di tanto in tanto, i cieli si aprono e il miracolo avviene. E può capitare a chiunque di noi, inatteso, quasi per caso.
Prendete una radura tra boschi di noci e pascoli verdi, in una valle remota del Caucaso centrale, col sole d’autunno che indugia arrossando le vette e il fresco pungente della notte che sale da un ruscello gelato. Prendete una grande tavola apparecchiata su rozzi supporti di legno, profondi catini di terracotta pieni di pezzi di carne arrostita o bollita, cumuli di pani e di frutta, odorosi canestri di ricotta, anfore di vino e - invitanti ma anche minacciose - numerose bottiglie di vodka freddissima. A capotavola, sotto un grande noce, siede un imponente vecchio “atamano” cosacco: il Maestro di Mensa, metà patriarca e metà sacerdote, che assegna i posti e fissa l’ordine dei brindisi. Al centro della radura, una grande antica croce di pietra che reca al centro, dove i due bracci s’incontrano, un simbolo solare di gusto pagano. Una croce antichissima, sfumata dal verde del muschio, ai piedi della quale si ammucchiano doni: frutta, fiori, monete di metallo.
I brindisi sono molti e rigorosamente rituali: il Maestro di Mensa pronunzia i principali, in ordine ben stabilito. Negli intervalli tra un brindisi e l’altro - una decina di minuti - , si mangia, si beve, si ride, si conversa. Il primo brindisi a Dio Onnipotente; il secondo a Maria, Madre di Dio; il terzo a san Giorgio protettore dei cavalieri caucasici; il quarto alle schiere angeliche; il quinto a tutti i santi; il sesto a tutti gli eroi caduti in battaglia, dai tempi più antichi narrati dai canti epici dei popoli alani fino alla guerra di liberazione contro i georgiani del 2008; il settimo a tutti i commensali e ai loro morti. Ad ogni brindisi ci si alza in piedi e si grida in coro Amen. Un ottavo brindisi, al generalissimo Stalin, non è obbligatorio ma è molto gradito. Stalin, georgiano da parte di padre, è considerato osseta perché tale era la madre: si pensa a lui come a una specie di mitico ultimo czar, i suoi busti e i suoi ritratti dominano ancora le piazze e il suo cognome è pronunziato non Doughasvili, alla georgiana, ma Doughati, all’osseta.
Dopo i brindisi rituali, ci si aspetta che anche gli ospiti ne propongano a loro volta almeno uno. Il bicchiere di vodka di ciascun brindisi va trangugiato d’un botto: il contrario, sarebbe indice di slealtà e di doppiezza d’animo. Agli ospiti stranieri si consiglia, immediatamente dopo ogni bicchierino (otto fanno un buon mezzo litro), una bella sorsata dell’ottima, freschissima acqua delle fonti caucasiche. Ma le libagioni non finiscono lì: ci sono le acquaviti di frutta (ogni famiglia produce la propria, e ti tocca ad assaggiarle tutte), un discreto vino bianco frizzante, un buon rosso corposo – sembra proprio che la vite sia originaria di qua e che il vino sia stato inventato tra queste valli – e per fortuna tanto succo di mela per innaffiare polli e montoni e tanta frutta per accompagnarli. Intanto, i cantastorie intonano le loro melodie antichissime, sull’onda delle quali si puo parlare dell’eroe Soslan e del suo viaggio al Paese dei Morti come del conflitto del 2008. Poi i giovani in tunica rossa o nera e cartucciere sul petto, come nei films di Greta Garbo, danzeranno fino a notte con le ragazze.
Non vi ho raccontato una favola. Vi ho descritto quel che è successo a me viaggiando, in pieno settembre del 2010, nella repubblica caucasica dell’Ossezia del Sud che – non ancora riconosciuta da tutti i paesi del mondo – celebra quest’anno il Ventennale della sua indipendenza dalla Georgia e, con i suoi circa 100.000 splendidi, fieri cittadini ambisce a riunirsi alla repubblica osseta settentrionale, 1.000.000 di abitanti, ch’ parte della federazione russa. Si arriva in aereo da Mosca; quindi dalla bella Vladikafkas, a nord della catena montuosa, un viaggio mozzafiato in fuoristrada attraverso uno dei paesaggi più belli (e pericolosi) del mondo porta a Zkinvall, poco più di 30.000 abitanti, capitale del sud: semidistrutta dai georgiani nel 2008 ma dolcissima, allegra, piena di vita e di ragazzi e ragazze belli, cordiali, ospitali, con una gran voglia di vivere e d’imparare.
Anni fa, scrivendo sulle radici della cavalleria medievale, m’imbattei nella lontana cultura caucasica degli osseto-alani e me ne innamorai. Oggi, settantenne, ho scoperto che un mio libro edito trent’anni fa, tradotto in russo, è stato letto e commentato ininterrottamente fra queste montagne. Mi hanno invitato, hanno organizzato una festa in mio onore, mi hanno offerto una decorazione. Ho rispolverato per l’occasione i miserabili brandelli del poco russo imparato molti decenni fa a Mosca: ma ho scoperto di avere una nuova seconda patria. Qui ho ritrovato la gente che avevo conosciuto nella Toscana della mia infanzia: la stessa fede profonda in Dio, la stessa capacità di amare il prossimo, la stessa cordialità sincera non inquinata dall’egoismo e dalla sete di possedere e di apparire. I cercatori talvolta maniacali d’identità e di radicamento che allignano dalle nostre parti dovrebbero recarsi in pellegrinaggio tra queste montagne per scoprire che cosa davvero significa vivere quotidianamente la tradizione e la solidarietà. Qui: tra questi cristiani venati ancora di usanze pagane e che si chiamano fra loro tovarish, alla veterocomunista. Gente per la quale la fede, l’onore, la parola data, il rispetto per i genitori e per gli ospiti, la solidarietà, la venerazione per il passato, il risparmio e la sobrietà (vodka a parte) sono ancora valori fondanti, che s’insegnano ai bambini. Che Dio benedica gli osseti, i loro cavalli, le loro canzoni e la loro libertà.
Prendete una radura tra boschi di noci e pascoli verdi, in una valle remota del Caucaso centrale, col sole d’autunno che indugia arrossando le vette e il fresco pungente della notte che sale da un ruscello gelato. Prendete una grande tavola apparecchiata su rozzi supporti di legno, profondi catini di terracotta pieni di pezzi di carne arrostita o bollita, cumuli di pani e di frutta, odorosi canestri di ricotta, anfore di vino e - invitanti ma anche minacciose - numerose bottiglie di vodka freddissima. A capotavola, sotto un grande noce, siede un imponente vecchio “atamano” cosacco: il Maestro di Mensa, metà patriarca e metà sacerdote, che assegna i posti e fissa l’ordine dei brindisi. Al centro della radura, una grande antica croce di pietra che reca al centro, dove i due bracci s’incontrano, un simbolo solare di gusto pagano. Una croce antichissima, sfumata dal verde del muschio, ai piedi della quale si ammucchiano doni: frutta, fiori, monete di metallo.
I brindisi sono molti e rigorosamente rituali: il Maestro di Mensa pronunzia i principali, in ordine ben stabilito. Negli intervalli tra un brindisi e l’altro - una decina di minuti - , si mangia, si beve, si ride, si conversa. Il primo brindisi a Dio Onnipotente; il secondo a Maria, Madre di Dio; il terzo a san Giorgio protettore dei cavalieri caucasici; il quarto alle schiere angeliche; il quinto a tutti i santi; il sesto a tutti gli eroi caduti in battaglia, dai tempi più antichi narrati dai canti epici dei popoli alani fino alla guerra di liberazione contro i georgiani del 2008; il settimo a tutti i commensali e ai loro morti. Ad ogni brindisi ci si alza in piedi e si grida in coro Amen. Un ottavo brindisi, al generalissimo Stalin, non è obbligatorio ma è molto gradito. Stalin, georgiano da parte di padre, è considerato osseta perché tale era la madre: si pensa a lui come a una specie di mitico ultimo czar, i suoi busti e i suoi ritratti dominano ancora le piazze e il suo cognome è pronunziato non Doughasvili, alla georgiana, ma Doughati, all’osseta.
Dopo i brindisi rituali, ci si aspetta che anche gli ospiti ne propongano a loro volta almeno uno. Il bicchiere di vodka di ciascun brindisi va trangugiato d’un botto: il contrario, sarebbe indice di slealtà e di doppiezza d’animo. Agli ospiti stranieri si consiglia, immediatamente dopo ogni bicchierino (otto fanno un buon mezzo litro), una bella sorsata dell’ottima, freschissima acqua delle fonti caucasiche. Ma le libagioni non finiscono lì: ci sono le acquaviti di frutta (ogni famiglia produce la propria, e ti tocca ad assaggiarle tutte), un discreto vino bianco frizzante, un buon rosso corposo – sembra proprio che la vite sia originaria di qua e che il vino sia stato inventato tra queste valli – e per fortuna tanto succo di mela per innaffiare polli e montoni e tanta frutta per accompagnarli. Intanto, i cantastorie intonano le loro melodie antichissime, sull’onda delle quali si puo parlare dell’eroe Soslan e del suo viaggio al Paese dei Morti come del conflitto del 2008. Poi i giovani in tunica rossa o nera e cartucciere sul petto, come nei films di Greta Garbo, danzeranno fino a notte con le ragazze.
Non vi ho raccontato una favola. Vi ho descritto quel che è successo a me viaggiando, in pieno settembre del 2010, nella repubblica caucasica dell’Ossezia del Sud che – non ancora riconosciuta da tutti i paesi del mondo – celebra quest’anno il Ventennale della sua indipendenza dalla Georgia e, con i suoi circa 100.000 splendidi, fieri cittadini ambisce a riunirsi alla repubblica osseta settentrionale, 1.000.000 di abitanti, ch’ parte della federazione russa. Si arriva in aereo da Mosca; quindi dalla bella Vladikafkas, a nord della catena montuosa, un viaggio mozzafiato in fuoristrada attraverso uno dei paesaggi più belli (e pericolosi) del mondo porta a Zkinvall, poco più di 30.000 abitanti, capitale del sud: semidistrutta dai georgiani nel 2008 ma dolcissima, allegra, piena di vita e di ragazzi e ragazze belli, cordiali, ospitali, con una gran voglia di vivere e d’imparare.
Anni fa, scrivendo sulle radici della cavalleria medievale, m’imbattei nella lontana cultura caucasica degli osseto-alani e me ne innamorai. Oggi, settantenne, ho scoperto che un mio libro edito trent’anni fa, tradotto in russo, è stato letto e commentato ininterrottamente fra queste montagne. Mi hanno invitato, hanno organizzato una festa in mio onore, mi hanno offerto una decorazione. Ho rispolverato per l’occasione i miserabili brandelli del poco russo imparato molti decenni fa a Mosca: ma ho scoperto di avere una nuova seconda patria. Qui ho ritrovato la gente che avevo conosciuto nella Toscana della mia infanzia: la stessa fede profonda in Dio, la stessa capacità di amare il prossimo, la stessa cordialità sincera non inquinata dall’egoismo e dalla sete di possedere e di apparire. I cercatori talvolta maniacali d’identità e di radicamento che allignano dalle nostre parti dovrebbero recarsi in pellegrinaggio tra queste montagne per scoprire che cosa davvero significa vivere quotidianamente la tradizione e la solidarietà. Qui: tra questi cristiani venati ancora di usanze pagane e che si chiamano fra loro tovarish, alla veterocomunista. Gente per la quale la fede, l’onore, la parola data, il rispetto per i genitori e per gli ospiti, la solidarietà, la venerazione per il passato, il risparmio e la sobrietà (vodka a parte) sono ancora valori fondanti, che s’insegnano ai bambini. Che Dio benedica gli osseti, i loro cavalli, le loro canzoni e la loro libertà.
4 ottobre 2010, nel mio settantesimo onomastico
Franco Cardini
da www.francocardini.net
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