Orgogliosi, questi veneti alluvionati. Ma più ancora: autonomi di fatto. E di conseguenza con poca o punta fiducia nello Stato erogatore di aiuti. Le richieste di risarcimento da privati e imprese sono drasticamente inferiori alle stime dei anni: da Vicenza e dalla vicina Caldogno, fra le più colpite dall’esondazione dei fiumi dell’1 novembre scorso, le domande di rimborso arrivano a 145 milioni di euro in totale. Cioè meno 130 milioni rispetto al calcolo fatto dalle autorità. Questo dato, macroscopico, basta a far capire cosa sta facendo risollevare le popolazioni sommerse da un disastro provocato, a monte, dal troppo cemento di una regione iper-sviluppata come il Veneto: la cooperazione e il senso di comunità.
Parrà strano, ma è così. I soldatini del lavoro come religione, gli alfieri del produttivismo spinto, i giapponesi d’Italia, quando c’è da aiutare il proprio vicino, diventano solidali come pochi. Chi scrive ha visto all’opera non solo i volontari (molti dei quali giovani e giovanissimi) animati dall’orrore dell’emergenza, ma il fiorire di una catena di solidarietà che ha incluso imprenditori, associazioni, e soprattutto singoli cittadini e famiglie, usciti di casa a spalar fango e a donare, oltre al proprio tempo, anche oggetti e beni perduti dal compaesano. Un’azienda di mobili, per dire, ha regalato venti cucine ad altrettante case rimaste allagate. La Caritas ha staccato assegni da decine di migliaia di euro. I musicisti hanno allestito concerti di beneficenza. La rete di amicizie e conoscenze si è attivata per rifornire gli alluvionati di quanto mancavano nell’immediato. Le contrade sono tornate ad essere borghi in cui il dirimpettaio non è più un estraneo che a malapena si saluta, ma la faccia conosciuta con cui si condivide il proprio spazio domestico. Cifre e statistiche non ce ne sono, per misurare ciò che non è misurabile: il bene della prossimità.
Sono schizofrenici, questi veneti? Ossessionati dalla ricchezza materiale da un lato, e capaci di una socialità spontanea e generosa dall’altro? Sicuramente la mitologia del padroncino, fondata sul fai-da-te, sulla scalata individuale al benessere economico, ha dato i suoi colpi di piccone e di bancomat all’umanità di genti contadine, povere e dignitose, che al fondo conservano ancora il decoro della buona amministrazione risalente alla Serenissima Repubblica di Venezia. Ciò nonostante lo ribadiamo: è stata la corsa all’oro dell’ultimo quarantennio ad aver stravolto il paesaggio, naturale e interiore, di una regione oberata di capannoni vuoti, centri commerciali pieni e urbanizzazioni selvagge. I colpevoli sono gli stessi, loro: i veneti. Epperò proprio quel fai-da-te, quell’impulso collettivo a costruirsi con le proprie mani il futuro, quel fastidio per le regole di Roma, quell’attaccamento a ciò che si ha perché frutto di ciò che si è, quell’impasto di semi-legalità, di egoismo e di localismo (l’evasione fiscale come rivendicazione anti-statale), tutto questo ha come rovescio della medaglia una società che, se può, fa volentieri a meno dello Stato centrale. Senza vittimismi, senza piagnistei.
C’è del buono, in questo autonomismo deturpato dal troppo amore per gli schei. Allora proviamoci, a lavorare sul concetto, così vissuto e per nulla teorico, della comunità che si identifica nell’imprenditorialità diffusa. Perché le piccole imprese, anima di questo pezzo d’Italia che si sente così poco italiano, corrisponderebbero a quell’economia a misura d’uomo di cui c’è bisogno. Ma siamo ancora alla preistoria di un’altra possibile storia. Finchè i laboriosi padroncini veneti resteranno avvinti al mito della competizione globale (la provincia di Vicenza esporta più della Grecia pre-crisi), il ritorno al sano locale resterà una bandiera propagandistica in mano alla politica strumentalizzatrice. Non è questione, si capisce, di volontà. E’ l’essere inseriti a pieno regime negli scambi di commercio mondiali ad ostacolare una riconversione delle piccole e medie aziende su consumi non drogati dalla sovrapproduzione. E così si giunge al nodo cruciale che ci tiene tutti schiavi: fin quando il sistema economico globalizzato non sarà imploso per effetto di una decrescita inevitabile, nessuna alternativa di società più umana sarà realisticamente pensabile. Tuttavia, i germi di una vita nuova sono già presenti. I piccoli imprenditori veneti, con le loro contraddizioni, stanno lì a dimostrarlo.
Parrà strano, ma è così. I soldatini del lavoro come religione, gli alfieri del produttivismo spinto, i giapponesi d’Italia, quando c’è da aiutare il proprio vicino, diventano solidali come pochi. Chi scrive ha visto all’opera non solo i volontari (molti dei quali giovani e giovanissimi) animati dall’orrore dell’emergenza, ma il fiorire di una catena di solidarietà che ha incluso imprenditori, associazioni, e soprattutto singoli cittadini e famiglie, usciti di casa a spalar fango e a donare, oltre al proprio tempo, anche oggetti e beni perduti dal compaesano. Un’azienda di mobili, per dire, ha regalato venti cucine ad altrettante case rimaste allagate. La Caritas ha staccato assegni da decine di migliaia di euro. I musicisti hanno allestito concerti di beneficenza. La rete di amicizie e conoscenze si è attivata per rifornire gli alluvionati di quanto mancavano nell’immediato. Le contrade sono tornate ad essere borghi in cui il dirimpettaio non è più un estraneo che a malapena si saluta, ma la faccia conosciuta con cui si condivide il proprio spazio domestico. Cifre e statistiche non ce ne sono, per misurare ciò che non è misurabile: il bene della prossimità.
Sono schizofrenici, questi veneti? Ossessionati dalla ricchezza materiale da un lato, e capaci di una socialità spontanea e generosa dall’altro? Sicuramente la mitologia del padroncino, fondata sul fai-da-te, sulla scalata individuale al benessere economico, ha dato i suoi colpi di piccone e di bancomat all’umanità di genti contadine, povere e dignitose, che al fondo conservano ancora il decoro della buona amministrazione risalente alla Serenissima Repubblica di Venezia. Ciò nonostante lo ribadiamo: è stata la corsa all’oro dell’ultimo quarantennio ad aver stravolto il paesaggio, naturale e interiore, di una regione oberata di capannoni vuoti, centri commerciali pieni e urbanizzazioni selvagge. I colpevoli sono gli stessi, loro: i veneti. Epperò proprio quel fai-da-te, quell’impulso collettivo a costruirsi con le proprie mani il futuro, quel fastidio per le regole di Roma, quell’attaccamento a ciò che si ha perché frutto di ciò che si è, quell’impasto di semi-legalità, di egoismo e di localismo (l’evasione fiscale come rivendicazione anti-statale), tutto questo ha come rovescio della medaglia una società che, se può, fa volentieri a meno dello Stato centrale. Senza vittimismi, senza piagnistei.
C’è del buono, in questo autonomismo deturpato dal troppo amore per gli schei. Allora proviamoci, a lavorare sul concetto, così vissuto e per nulla teorico, della comunità che si identifica nell’imprenditorialità diffusa. Perché le piccole imprese, anima di questo pezzo d’Italia che si sente così poco italiano, corrisponderebbero a quell’economia a misura d’uomo di cui c’è bisogno. Ma siamo ancora alla preistoria di un’altra possibile storia. Finchè i laboriosi padroncini veneti resteranno avvinti al mito della competizione globale (la provincia di Vicenza esporta più della Grecia pre-crisi), il ritorno al sano locale resterà una bandiera propagandistica in mano alla politica strumentalizzatrice. Non è questione, si capisce, di volontà. E’ l’essere inseriti a pieno regime negli scambi di commercio mondiali ad ostacolare una riconversione delle piccole e medie aziende su consumi non drogati dalla sovrapproduzione. E così si giunge al nodo cruciale che ci tiene tutti schiavi: fin quando il sistema economico globalizzato non sarà imploso per effetto di una decrescita inevitabile, nessuna alternativa di società più umana sarà realisticamente pensabile. Tuttavia, i germi di una vita nuova sono già presenti. I piccoli imprenditori veneti, con le loro contraddizioni, stanno lì a dimostrarlo.
Alessio Mannino
da: www.ilribelle del 15 dicembre 2010
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