Io non mi occupo delle vicende della Valchiampo se non da un paio d'annetti. Una cosa l'ho capita bene però: immaginare il mondo della concia come una lobby unica e tutta d'un pezzo è sbagliato. Anche i più potenti sono ferocemente divisi, fanno errori e spesso non sono convinti nemmeno delle loro scelte. La loro vera forza, che è contemporaneamente anche la forza delle maestranze, è stata quella di costruire un distretto in cui saperi non codificati danno vita da mezzo secolo ad un prodotto ancora di qualità indiscussa (anche se l'ambiente viene disastrato). Il problema di fondo è che questo vantaggio strategico viene eroso un pochino alla volta. E quando sarà troppo poco il comparto morirà.
Ecco perché ha ragione chi sostiene che già dagli anni Ottanta ci si sarebbe dovuto chiedere quale strada intraprendere. Il comparto della concia così come lo conosciamo noi non è stata una intuizione degli imprenditori, ma una intuizione della politica ovvero di Mariano Rumor e del suo entourage, i quali decisero nei primissimi anni Cinquanta (con Rumor ministro dell'agricoltura) di localizzare lì quelle produzioni conciarie industriali altamente redditizie ma ambientalmente terribili, proprio lì in Valchiampo, capendo che il venturo boom economico avrebbe portato in vallata una montagna di soldi. Ma quel capitale come è stato investito? Gli si è dato un valore non meramente speculativo? Sparito Rumor, nel senso simbolico dell'espressione (il quale nonostante i suoi terribili difetti aveva una visione politica e un senso di essere classe dirigente), sono rimasti i metodi rumoriani della gestione degli interessi e degli affari. La politica, che si è «irrozzita e imputtanita» s'è messa al servizio di chi ha in mano la grana.
Gli imprenditori come i banchieri che non hanno alcun orizzonte di lungo respiro stanno portando sé stessi e il mondo a loro incollato al fosso. Con buona pace di tutti. In fine il bello di tutta questa storia e che quando parli con un industriale, egli è il primo ad ammettere che la politica manca e che non si può lasciare all'avidità dei singoli (lo dicono gli imprenditori non i non global) la responsabilità di costruire un orizzonte collettivo. Si tratta del segno evidente che la matrice culturale intima anche della nostra imprenditorìa è tutto fuor che liberista. Che il liberismo in realtà non è che un punto di vista; e che siamo arrivati all'assurdo sociale per cui chi fa impresa invoca il politico forte anche contro i suoi interessi, ma al contempo, quando c'è, lo soffoca col suo potere per paura di perdere qualcuno dei privilegi acquisiti. Antinomìa irrisolvibile se non con un completo sconvolgimento o lacrime di coccodrillo? Magari tutte e due.
Ecco perché ha ragione chi sostiene che già dagli anni Ottanta ci si sarebbe dovuto chiedere quale strada intraprendere. Il comparto della concia così come lo conosciamo noi non è stata una intuizione degli imprenditori, ma una intuizione della politica ovvero di Mariano Rumor e del suo entourage, i quali decisero nei primissimi anni Cinquanta (con Rumor ministro dell'agricoltura) di localizzare lì quelle produzioni conciarie industriali altamente redditizie ma ambientalmente terribili, proprio lì in Valchiampo, capendo che il venturo boom economico avrebbe portato in vallata una montagna di soldi. Ma quel capitale come è stato investito? Gli si è dato un valore non meramente speculativo? Sparito Rumor, nel senso simbolico dell'espressione (il quale nonostante i suoi terribili difetti aveva una visione politica e un senso di essere classe dirigente), sono rimasti i metodi rumoriani della gestione degli interessi e degli affari. La politica, che si è «irrozzita e imputtanita» s'è messa al servizio di chi ha in mano la grana.
Gli imprenditori come i banchieri che non hanno alcun orizzonte di lungo respiro stanno portando sé stessi e il mondo a loro incollato al fosso. Con buona pace di tutti. In fine il bello di tutta questa storia e che quando parli con un industriale, egli è il primo ad ammettere che la politica manca e che non si può lasciare all'avidità dei singoli (lo dicono gli imprenditori non i non global) la responsabilità di costruire un orizzonte collettivo. Si tratta del segno evidente che la matrice culturale intima anche della nostra imprenditorìa è tutto fuor che liberista. Che il liberismo in realtà non è che un punto di vista; e che siamo arrivati all'assurdo sociale per cui chi fa impresa invoca il politico forte anche contro i suoi interessi, ma al contempo, quando c'è, lo soffoca col suo potere per paura di perdere qualcuno dei privilegi acquisiti. Antinomìa irrisolvibile se non con un completo sconvolgimento o lacrime di coccodrillo? Magari tutte e due.
Marco Milioni
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