sabato 12 dicembre 2009

Quella sovranità della moneta in mani private e il non detto sul debito pubblico detestabile

«Abbiamo ricominciato a tremare per le banche. Abbiamo ricominciato a tremare addirittura per gli Stati, a rischio di fallimento attraverso i debiti delle banche. Si è alzata anche, in questi frangenti, la voce di Mario Draghi con il suo memento ai governanti: attenzione al debito pubblico e a quello privato; dovete a tutti i costi farli diminuire. Giusto. Ma l’unico modo efficace per farli diminuire è finalmente riappropriarsene». Così scriveva ieri Ida Magli su Il giornale in pagina 21. «Non è forse giunta l’ora, dopo tutto quanto abbiamo dovuto soffrire a causa delle incredibili malversazioni dei banchieri, di sottrarci al loro macroscopico potere? Per prima cosa - si legge ancora nel corsivo - informando con correttezza i cittadini di ciò che in grande maggioranza non sanno, ossia che non sono gli Stati i padroni del denaro che viene messo in circolazione in quanto hanno delegato pochi privati, azionisti delle banche centrali, a crearlo. Sì, sembra perfino grottesca una cosa simile; uno scherzo surreale del quale ridere; ma è realtà». 

Il corsivo di Magli, che è pubblicato su un quotidiano di simpatie tutt'altro che stataliste deve indurre chi, per ignoranza o ipocrisia, da troppo tempo non si sofferma più su argomenti del genere. E che la questione sia dannatamente seria lo spiega ancora Magli quando scrive che c’è stato un momento in cui alcuni ricchissimi banchieri hanno convinto gli Stati a cedere loro il diritto di fabbricare la moneta per poi prestargliela con tanto di interesse. È così che si è formato il debito pubblico: sono i soldi che ogni cittadino deve alla banca centrale del suo paese per ogni moneta che adopera. La Banca d’Italia non è per nulla la «Banca d’Italia», ossia la nostra, degli italiani, precisa ancora la giornalista, ma una banca privata, così come le altre Banche centrali inclusa quella Europea, che «sono proprietà di grandi istituti di credito, pur traendo volutamente i popoli in inganno fregiandosi del nome dello Stato per il quale fabbricano il denaro».

Come rimarca Il Giornale è bene ricordare che tutto ebbe in qualche modo inizio quando la Federal Reserve (che si chiama così ma che non ha nulla di «federale»), banca centrale americana, i cui azionisti sono alcune delle più famose banche del mondo quali la Rothschild Bank di Londra, la Warburg Bank di Berlino, la Goldman Sachs di New York e poche altre. «Queste a loro volta sono anche azioniste di molte delle banche centrali degli Stati europei e queste infine, con il sistema delle scatole cinesi, sono proprietarie della Banca centrale europea. Insomma il patrimonio finanziario del mondo è nelle mani di pochissimi privati ai quali è stato conferito per legge un potere sovranazionale, cosa di per sé illegittima negli Stati democratici ove la Costituzione afferma, come in quella italiana, che la sovranità appartiene al popolo». Nel suo corsivo Magli, una delle più note antropologhe del Paese, fa bene a ricordare che niente «è segreto di quanto detto finora, anzi: è sufficiente cercare le voci adatte in internet per ottenere senza difficoltà le informazioni fondamentali sulla fabbricazione bancaria delle monete, sul cosiddetto «signoraggio», ossia sull’interesse che gli Stati pagano per avere «in prestito» dalle banche il denaro che adoperiamo e sulla sua assurda conseguenza: l’accumulo sempre crescente del debito pubblico dei singoli Stati».

A questo punto si pone un problema: come mai le élite dirigenti della politica, sia che facciano riferimento al centrodestra, sia che facciano riferimento al centrosinistra, questi dossier non li sollevano mai? A rendere ancora più plastico lo stupore per ciò che negli ambienti economici è risaputo c'è un'altra annotazione della studiosa: «... la bibliografia è abbastanza nutrita e sono facilmente reperibili sia le traduzioni in italiano che i volumi specialistici di nostri autori. Tuttavia queste informazioni non circolano e sembra quasi che si sia formata, senza uno specifico divieto, una specie di congiura del silenzio. È vero che le decisioni dei banchieri hanno per statuto diritto alla segretezza; ma sappiamo bene quale forza pubblicitaria di diffusione la segretezza aggiunga alle notizie. Probabilmente si tratta del timore per le terribili rappresaglie cui sono andati incontro in America quegli eroici politici» che hanno tentato di far saltare l’accordo con le banche e di cui si parla come dei «caduti» per la moneta. Abraham Lincoln, John F. Kennedy, Robert Kennedy sono stati uccisi, infatti («questo collegamento causale naturalmente è senza prove») subito dopo aver firmato la legge che autorizzava lo Stato a produrre il dollaro in proprio.

Il ragionamento della corsivista de Il Giornale si conclude così: «Oggi, però, è indispensabile che i popoli guardino con determinazione e consapevolezza alla realtà del debito pubblico nelle sue vere cause in modo da indurre i governanti a riappropriarsi della sovranità monetaria prima che esso diventi inestinguibile. È questo il momento. Proprio perché i banchieri ci avvertono che il debito pubblico è troppo alto e deve rientrare, ma non è possibile farlo senza aumentare ancora le tasse oppure eliminare alcune delle più preziose garanzie sociali; proprio perché le banche hanno ricominciato a fallire, anche se in realtà non avevano affatto smesso, e ci portano al disastro; proprio perché è evidente che il sistema, così dichiaratamente patologico, è giunto alle sue estreme conseguenze, dobbiamo mettervi fine. In Italia non sarà difficile convincerne i governanti, visto che più volte è apparso chiaramente che la loro insofferenza per la situazione è quasi pari alla nostra». Si tratta di parole sostanzialmente condivisibili. Ma c'è un ma. Siamo davvero sicuri che in Italia sarà difficile convincere i governati quando in realtà questi, a qualsiasi schieramento appartengano, sembrano tenere in considerazione più il dettato delle lobby che le reali necessità degli Stati, dei loro cittadini e dei loro popoli?

Durante il suo ragionamento Magli propugna un discorso in modo molto coerente ma evita però di portarlo alle estreme conseguenze. È vero che da decenni e decenni il capitalismo finanziario internazionale ha inoculato il germe della sua dominanza negli stati e nella economia reale. Ma siamo sicuri che sarebbe possibile un capitalismo in ciascuno Stato sovrano? È chiaro infatti che se vere sono le premesse della Magli, è altrettanto vero che è il sistema capitalistico in quanto tale, liberista e di mercato (globalizzato, nazionale o localistico poco importa) a non reggere. È il modello di sviluppo che deve essere superato, anzi mandato al macero, in una con una concezione economicista della crescita infinita che in primis sul piano ambientale rischia di portarci al fosso. Questo è cuore del ragionamento. Magli, che è una antropologa di vaglia avrebbe dovuto citare, tanto per dirne una, tutte le conclusioni cui negli Usa e in Europa, tanto per dirne una, sono giunti i fautori del bio-regionalismo o della decrescita conviviale.

Una riflessione ulteriore va fatta sul debito pubblico. È vero che una parte di quest'ultimo, anche in Italia, va ascritto al devastante business del capitalismo finanziario che sfrutta le debolezze strutturali dei conti pubblici per arricchirsi in modo spaventoso. Però questo aspetto non deve diventare una scusa. In Italia l'indebitamento sia pubblico (vale per il budget statale) sia privato (vale per le banche quando erogano crediti o quando contraggono debiti) è da sempre una forma di potere, come accade allivello superiore peraltro. Proprio la cresta sugli appalti, la corruzione dilagante, le grandi opere inutili, le concessioni svendute, la spesa non rigorosa, non solo costituiscono un vulnus sociale, ma impediscono che le risorse siano allocate dove servono secondo giustizia ed equità. Il capitalismo, per ragioni intrinseche alla sua natura non è in grado di uscire da questa contraddizione. E non lo è anche se d'incanto la finanza internazionale evaporasse dopodomani perché le stesse storture, mutatis mutandis, come avviene in fisica coi frattali, si possono ripetere a livello locale o nazionale.

In ultimo quando si parla debito pubblico poi c'è un altro tabù che andrebbe affrontato. Ogni volta che in un qualsiasi Paese c'è un cambio di governo si dà per scontato che l'eredità precedente sia un portato del passato e che le scelte operate precedentemente siano irreversibili, in primis quando si tratta di rimettere i propri debiti ai debitori. Ma che cosa succede se l'indebitamento è il risultato di politiche marchianamente sciagurate o peggio truffaldine od eversive? Uno Stato è per forza obbligato ad onorare i debiti contratti da un governante sciagurato?

La vulgata più o meno corrente, più o meno innamorata del monetarismo di stampo anglosassone, dice che i debiti sono debiti e basta. Ma non è così. Esiste una autorevole dottrina giuridica, quella del debito odioso o detestabile che in realtà contraddice proprio questa certezza. E lo fa non su basi economiche bensì di diritto. Come nei rapporti tra persone quando un qualcuno contrare un debito con l'inganno quel debito in toto o in parte non ha ragione d'essere così dovrebbe valere anche nei rapporti internazionali tra debitore e creditore. Questo modo di concepire i rapporti internazionali in cui l'aspetto politico-giuridico prevale su quello economico-contabile, ha fatto più volte capolino durante la storia dell'Occidente fino a quando il giurista russo Alexander Sack fissò questo concetto elaborando la dottrina del cosiddetto debito detestabile. Si tratta di concetti teorizzati in un opera oggi semi-sconosciuta agli economisti che venne stampata in Francia durante gli anni Venti in un volume intitolato «Les effets des transformations des Etats sur leurs dettes publiques et autres obligations financières», tradotto alla grezza «Effetti delle trasformazioni degli stati sui loro debiti pubblici e altri obblighi finanziari». In realtà Sack, che conosceva benissimo il panorama politico-economico internazionale dacché fu ministro della russia zarista, altro non fece che mettere nero su bianco gli aspetti teorici di una condotta che era già stata adottata in alcuni casi. Si pensi a quanto fecero gli Usa alla fine della guerra ispano-americana quando sostennero che l'indebitamento pubblico che gravava su Cuba (da poco entrata nell'orbita di Washington) verso la Spagna non fosse da onorare perché contratto non per il bene collettivo dei cubani.

Da anni invece le banche e gli apparati finanziari di matrice americana o inglese (ma non solo loro ci mancherebbe) si guardano bene dal solo considerare un approccio del genere. Il motivo è ovvio. Che tale eventualità non sia però presa in considerazione dal mainstream politico la dice lunga sulla pochezza (voluta o casuale poco importa) del ceto politico degli stati, Italia in primis. Il che la dice lunga non solo sul debito (ovvero sulla moneta) non come strumento neutrale ma come strumento di potere, ma la dice lunga anche su chi realmente abbia in mano il bastone del comando. Il problema di fondo è che molti tra coloro i quali contestano questo meccanismo non lo contestano tout-court, ma lo contestano solo in quanto derivazione di un kombinat transnazionale e globalista. Come se questo tipo di pratica, operata da un capitalismo nazionale andasse invece bene o fosse comunque accettabile.

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