Se avessero maggior rispetto di sé stessi, i leghisti con una coscienza - e ce ne sono - dovrebbero organizzare una “giornata dell’onore”. Dovrebbero chiamare tutti gli ex leghisti espulsi, fuoriusciti e marginalizzati dal padre-padrone Bossi e dai suoi gerarchi in questi vent’anni di dittatura nella Lega Nord. Dovrebbero ascoltare le loro storie, dato che il nostro è un paese di smemorati. E poi dovrebbero porsi una domanda: cosa ci sto a fare in un partito militarizzato dove la coerenza è alla mercé della convenienza, e gli ideali di fondazione sono stati messi sotto i piedi per il potere?
Il caso del vicentino Davide Lovat è solo l’ultimo in ordine cronologico di una lunga serie di epurazioni. Nella Lega circola un adagio: “I leghisti sono liberissimi di pensare come Umberto Bossi”. Autoironia o autocommiserazione, dopo vent’anni dalla nascita il movimento che riunisce le leghe settentrionali non si è evoluto secondo le regole della democrazia, ma è rimasto quello che era ai suoi stradaioli inizi: una caserma di soldatini che obbediscono alla volontà del comandante Bossi (o del “cerchio magico”, il quadrumvirato Manuela Bossi-Rosi Mauro-Marco Reguzzoni-Federico Bricolo che secondo i beninformati ne filtra e condiziona gli ordini).
Così oggi il Carroccio è un agguerrito e famelico ibrido fra una neo-Dc descamisada, che a Roma governa e sul territorio fa man bassa di poltrone, e una setta leninista in cui i congressi locali fanno da paravento a lotte intestine fra ras e correnti. Coloro che hanno osato dissentire sono stati fatti fuori uno a uno. La lista è lunghissima e ve la risparmiamo. Basti dire che il reato di lesa maestà in tutti i casi è consistito nell’aver fatto presente che la propria opinione era diversa dalle decisioni calate dall’alto. Vietato pensare con la propria testa, vietata la discussione alla luce del sole, vietata la libertà di espressione (che per inciso è il principio cardine di una liberal-democrazia). Lovat, dirigente locale che s’era illuso di trovare sponde fra i capetti vicentini, è autore di un libro (“Tu sarai leghista! Leghista sarai tu!”) che gli ha procurato una fama sinistra fra i suoi: essere un intellettuale, e per giunta critico.
Lovat, infatti, non fa mistero della propria avversione per i “signorotti delle colline”, i feudatari che hanno imbrigliato la “Lega di popolo” in una opaca rete di interessi economici e clientelari contro l’originario spirito anti-sistema. Nello specifico, Lovat il ribelle, il rottamatore, ce l’ha con i parlamentari Manuela Dal Lago, Stefano Stefani e Alberto Filippi. Ma più in generale con la degenerazione affaristica in cui sono cadute le camicie verdi negli ultimi dieci anni, che discende dall’abbraccio definitivo con Berlusconi e il berlusconismo (vedi l’assalto alle fondazioni bancarie come Cariverona, cabina di comando di Unicredit, o la sfacciata corruzione di esponenti di partito, ad esempio nel distretto della concia di Arzignano). Per aver proposto un ritorno alle origini, identificate nell’identitarismo (venetismo) e nella lotta per la legalità, e soprattutto per aver tentato di contrastare gli oligarchi vicentini in occasione dell’ultimo rinnovo del segretario provinciale berico a febbraio sostenendo Roberto Grande che ha ottenuto il 40% dei consensi, Lovat è stato messo alla porta.
Prima con un sms (sic!). Poi, finalmente, con una lettera di espulsione in cui la motivazione era spiegata in mezza riga: «gravi ragioni che ostacolano e pregiudicano l’attività del movimento», fine. Morale (si fa per dire): dentro la Lega ci sono pregiudicati, condannati e indagati per evasione fiscale, per false fatturazioni, per peculato, per bancarotta fraudolenta, per incitamento all’odio razziale. Davide Lovat è incensurato, dopo aver dismesso le sue attività di immobiliarista ha un normalissimo lavoro come professore di liceo, non ha più alcun incarico e si vede cacciare per direttissima, senza avere la possibilità di difendersi e senza neppure che qualcuno gli fornisca un valido perché. Ma lui lo sa benissimo: ha commesso l’errore di fare come si fa in democrazia: contrapporre le proprie idee ad altre. Ha commesso però l’errore di sottovalutare il vizio d’origine del leghismo: essere, congenitamente e strutturalmente, una forza anti-democratica. Nella quale si fa carriera per meriti dinastici (il Trota messo a capo dei media del partito, una vergogna) e non per la qualità che caratterizza gli uomini liberi: avere una coscienza.
Se avessero le palle, quei militanti della base che hanno votato Grande non se ne starebbero zitti nelle tane in cui sono tornati, usi a ubbidir tacendo. Lovat l’ha detto chiaramente alle telecamere di Presa Diretta su Rai3: oggi i partiti sono i cavalli di troia di gente che pensa agli affari, propri o di coloro di cui sono a libro paga. Tutti, Lega compresa. Sapete benissimo che è così, e la galleria degli epurati è lì a dimostrare che chi fa politica per le idee, invece, viene trattato come un nemico. Se ci siete, leghisti onesti e coerenti, battete un colpo. Altrimenti la vostra è solo paura, paura e disonore.
Alessio Mannino
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