(m.m.) Da diversi gironi sui media e sui social network si dibatte molto, alle volte in maniera seria, alle volte in modo sguiaiato e sdraiato, di libertà di espressione e di libertà di stampa. Queste libertà promanano direttamente dall'articolo 21 della Costituzione. Sono in molti i quali sostengono che le limitazioni alla stessa libertà di espressione vadano ricercate proprio nella seconda parte di quell'articolo. Io credo però che chi sostenga questa tesi affronti la materia senza il dovuto approfondimento: per una serie di ragioni di ordine giuridico (che mi interessano sino a un certo punto) nonché di ordine etico.
La seconda parte dell'articolo 21 infatti non parla dei paletti identificabili per comprimere la libertà di espressione bensì esplica che i prodotti editoriali possano essere sottoposti a sequestro il che non annovera per forza la punibilità penale di un dato comportamento. Il concetto della diffamazione non è nemmeno compendiato per di più. Ora quando si parla di diffamazione (che peraltro è una nozione giuridica prevista dalla legge ordinaria ossia col codice penale non dalla Costituzione) e di conseguenza si parla della possibilità di comprimere, in taluni casi, la libertà di esprimersi ci sono due scuole di pensiero in campo.
La prima si basa sull'assunto che una democrazia debba gioco forza sorreggersi anche su un equilibro di diritti e doveri o meglio su un equilibro di libertà per il famoso principio per cui la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri. Si tratta di un approccio «liberale ed empirico» al problema che venne in qualche modo estrinsecato appunto da questa frase famosa di Martin Luther King, frase che pur non risolvendo bene la questione sul piano giuridico od etico, viene comunque usata spesso da coloro che ritengono in qualche misura auspicabile che sia prevista in taluni casi la limitazione della libertà di espressione. C'è poi un altro approccio al problema che è quello «massimalista» secondo il quale in una democrazia ci sono alcuni diritti incomprimibili e non negoziabili (sono esplicito, io sottoscrivo questo orientamento meno conservatore e più innovativo), tra cui quello alla libertà di espressione. In questo senso se la forma democratica è assunta come la forma del nostro vivere, chi fa parte di questa comunità accetta gioco forza la debolezza intrinseca della medesima democrazia (garantendo di fatto la libertà d'invettiva o di insulto in relazione alla nozione che la menzogna si batte solo con la verità e non con le sanzioni) la quale se per esistere o assicurare talune libertà comprime quelle incomprimibili allora non è più tale.
Gli Stai uniti per esempio garantiscono questo diritto col primo emendamento alla loro carta costituzionale: il quale però viene da sempre facilmente aggirato grazie ad un utilizzo distorto del codice civile (basti pensare alle cause di risarcimento danni per i giornalisti, cosa che avviene anche in Italia). Purtroppo il diritto alla libertà di espressione viene continuamente coccolato un po' da tutti: salvo invocare punizioni quando l'invettiva di tizio o di caio ci riguarda direttamente o riguarda un gruppo al quale ci sentiamo vicini. C'è poi un aspetto secondario, ma nemmeno tanto, che pertiene a chi come me svolge la professione giornalistica.
In Italia non esiste una norma che tuteli il diritto di cronaca (che è se si vuole un sottoinsieme della libertà di stampa che a sua volta è un sottoinsieme della libertà di espressione). Colui che esercita il diritto di cronaca quando incappa in una vicenda di diffamazione a mezzo stampa infatti se lede l'altrui onorabilità, anche raccontando fatti veri, è sempre punibile. È sempre punibile a meno che non rispetti il cosiddetto decalogo della Cassazione penale in materia di diffamazione: se ne ricava che l'esercizio di un diritto fondamentale per una democrazia non è è esplicitato in maniera positiva bensì è enunciato per sottrazione (il che la dice lunga sulla opinione reale del legislatore su questo tema). Ossia non è disciplinato da un articolo di legge bensì da un pronunciamento a sezioni riunite della Cassazione penale: pronunciamento ormai datato e espresso in modo così farraginoso nonché poco chiaro da rendere la punibilità del reato assai discrezionale da parte della magistratura.
Negli anni i cascami di una situazione del genere hanno avuto effetti deleteri creando giornalisti di serie A (tutelati o vicini al potere) e di serie B (non tutelati e senza mezzi): ma soprattutto si è venuta a creare una situazione insostenibile (lo denuncia l'Osservatorio ossigeno) per cui sistematicamente i giornalisti, specie quelli delle piccole testate, vengono zittiti con querele temerarie o con liti temerarie dacché o i giornalisti stessi o i loro editori non hanno i mezzi per difendersi sul piano economico-legale.
Ne è seguito uno svilimento della libertà dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica (a tutto vantaggio delle élite e delle lobby che gestiscono il potere) che colloca l'Italia in una posizione poco invidiabile in merito alla libertà di stampa. Se a questo aggiungiamo la odiosità delle sanzioni previste dal codice penale per il giornalista o per altri che rivelino documentazione coperta dal segreto di Stato (quando caso mai dovrebbe essere punito solo il pubblico ufficiale che lo fa), capiamo bene quanto già ora la libertà di espressione sia compressa. Se poi vogliamo considerare che gioco forza chiunque scriva un post sui social media finisca poi per essere assoggettato alla disciplina della diffamazione a mezzo stampa, allora si capirà quanto già ora, già adesso, la nostra libertà sia non solo compressa ma addirittura compromessa.
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