Com’era ampiamente prevedibile, l’elezione di Piercamillo Davigo al vertice dell’Anm ha subito fatto saltare i nervi alla classe politica, specie di quella governativa. Il prestigio che deriva dalla sua storia, il linguaggio franco e tagliente, la capacità di sintetizzare i disastri della politica giudiziaria dei governi con battute comprensibili a tutti senza paraculaggini, sono peccati mortali nel Paese di Tartuffe. Chi lo ascolta e lo confronta coi balbettii dei minus habentes autonominatisi eletti dal popolo capisce subito chi ha ragione. Del resto ciò che Davigo dice da anni e ripete ora lo sanno tutti: i politici rubano più di prima, ma hanno smesso di vergognarsi, anzi rivendicano ciò che prima facevano di nascosto, quindi si guardano bene dal varare riforme efficaci per scoperchiare e combattere il malaffare.
E non passa giorno senza che un’indagine lo dimostri. Ma sentirglielo dire con tanta chiarezza, tra tanti suoi colleghi che impiegano un quarto d’ora e duemila parole solo per dire “buonasera”, ha lo stesso effetto dell’urlo “il re è nudo!” del bimbo nella fiaba di Andersen. Siccome i politici parlano male perché pensano e agiscono malissimo, il solo sentir parlare Davigo li manda in bestia. Riecco dunque il vecchio refrain “i giudici parlino con le sentenze” (copyright Craxi&B.) in bocca al responsabile Giustizia (si fa per dire) del Pd David Ermini, molto applaudito da Ncd e da FI.
Sognano un bel bavaglio, oltreché per i giornali, anche per Davigo: come se il rappresentante di 9 mila magistrati non avesse il diritto di dire la sua sulla materia di cui si occupa da 40 anni. L’apparenza però non deve ingannare: di Davigo non spaventano le parole, ma i fatti che potrebbero scaturirne: l’effetto galvanizzante e rivitalizzante su una magistratura sempre più tremebonda, conformista e “genuflessa” al potere. Il rischio (per lorsignori) e la speranza (per noi) è che molti magistrati ritrovino le ragioni della propria missione e perdano i timori reverenziali verso il potere nel momento cruciale in cui devono decidere se indagare o archiviare, se prosciogliere o processare, se assolvere o condannare un colletto bianco. “Non ci attaccano per quello che diciamo – disse Davigo ai tempi di Mani Pulite –, ma per quello che facciamo”. La controprova si chiama Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. Anche lui è prodigo di interviste e, diversamente da Davigo, di articoli sui giornali. Scrive sul Messaggero di Caltagirone. E non fa mai mancare l’appoggio alle controriforme del governo di turno.
Ora è molto eccitato per l’attacco di Renzi a “25 anni di barbarie giustizialista” e per il bavaglio sulle intercettazioni, anche se gli pare “troppo timido”: lui non si contenta di proibire ai giornali di pubblicarle (“una porcheria indegna di un paese civile”); lui vuole proprio abolirle come “fonti di prova” e lasciarle “nel cassetto del giudice”. Al posto suo, eviteremmo di evocare cassetti: nel 2004 Bruno Vespa scoprì che nel suo giaceva dal 1998 il famoso fascicolo sulle presunte tangenti rosse di D’Alema e Occhetto: avrebbe dovuto essere trasmesso 6 anni prima alla Procura di Roma, ma Nordio se l’era scordato. Quando arrivò, era tutto prescritto. In compenso due anni fa fu proprio Nordio a far arrestare 35 persone a Venezia per il Mose, dal sindaco Orsoni al deputato Galan: li aveva visti coi suoi occhi scambiarsi mazzette?
No, orrore: li aveva intercettati. E le conversazioni, anziché nasconderle nel cassetto, le aveva usate come fonti di prova, allegandole orribilmente agli atti, così il gip le usò per arrestarne 35 e i giornali le pubblicarono. Lui però non denunciò la “porcheria indegna” nelle sue copiose interviste sull’inchiesta. E nessuno si sognò di intimargli di parlare solo con i suoi atti. Come nessuno ora gli domanda a che titolo un pm trinci giudizi politici sul Messaggero: Michele Emiliano ha avuto un’“infelicissima uscita” sul referendum, mentre l’amato Renzi fa benissimo ad “affondare la lama” contro i pm e non deve “intimidirsi” per i cattivoni del M5S e di quel che resta della libera stampa (“le anime belle del giacobinismo forcaiolo”) che osano opporsi al bavaglio. Quanto al centrodestra, deve “applaudire il premier” e “incoraggiarlo”, anziché appoggiare il referendum No Triv con gli orrendi “grillini” e l’“estrema sinistra”. Il finale è strepitoso: “La libertà personale è vulnerata dall’eccesso di custodia cautelare”.
Fanno eccezione i suoi 35 arresti per il Mose, s’intende. Ma anche il caso di un pm veneziano che, nel 2000, sequestrò l’auto al cliente di una prostituta anche se non aveva commesso alcun reato: A.P, 25 anni, sorpreso dai carabinieri con una moldava, fu denunciato per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (delitto previsto per i papponi, non per i clienti) e si vide sequestrare l’auto. Il pm convalidò e il giovane, pochi minuti dopo, si suicidò. Il pm spiegò che “nell’immediatezza del fatto l’operato dei carabinieri si presentava formalmente legittimo”, ma “il cliente non si può assolutamente perseguire in base alla legge”. Perciò dissequestrò l’auto, a funerali avvenuti. Il pm era Nordio: lo stesso che oggi, all’unisono con Renzi & C., strilla contro “la dignità calpestata dalle intercettazioni generalizzate e diffuse”.
Marco Travaglio
da Il Fatto quotidiano del 23 aprile 2016; pagina prima
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