sabato 26 novembre 2016

Magnar, bevar e far de conto

«La lingua veneta non è secondaria rispetto alla lingua italiana. Rappresenta un'eredità della nostra storia ma, come lingua viva e ancora largamente parlata, ha anche funzioni sociali importanti, tra cui l'individuazione più immediata e diretta di luoghi, realtà urbanistiche e paesaggistiche. Anche la toponomastica, dando spazio agli usi linguistici locali, contribuisce quindi a rafforzare il concetto di identità veneta». Così parlò l'assessore alla identità veneta Cristiano Corazzari alla fine di ottobre.

E l'uomo, descrivendo l'iter che a breve dovrebbe consentire ai cartelli stradali di fregiarsi della toponomastica bilingue come in Friuli, riesce a dire cose condivisibili pur avendo torto. L'assessore usa una espressione precisa: «eredità della nostra storia», ma da assessore alla identità veneta dovrebbe sapere che questa eredità, se come tale la si vuole salvaguardare, deve essere un unicum: col paesaggio, con i borghi, con le aste fluviali, con le campagne, con le contrade rurali. Per un semplice motivo: la vulgata tradizionale dovrebbe essere il tessuto connettivo di quella agognata trinità «terra, popolo e lingua», rispetto alla quale quest'ultima costituisce uno dei principali portati storici e non solo storici, di un qualcosa di ancora più profondo che si chiama cultura. Termine che in quel passaggio, non a caso Corazzari non adopera. Tuttavia quando si fa riferimento a quei luoghi della terra veneta ci si rende conto che ormai appartengono all'immaginario.

Sono seppelliti sotto una interminabile e asfissiante seborrea di capannoni diversamente sfitti o diversamente leciti, di tangenziali, di complanari, di orbitali, di sedimi sudici fra autostrade e rotatorie, di shopping centre al prolasso, di piani regolatori onnivori, di poli direzionali fastidiosi come un trombo emorroidario. Sarebbe questo il modo con cui i veneti e la loro classe dirigente negli anni hanno conservato la loro identità?

Nonostante questo il Veneto rimane una terra che ha pagato un prezzo carissimo alla modernità. Schiaffare su qualche cartello il doppio nome di un luogo, che magari nemmeno esiste più perché sepolto sotto la solita colata imprenditorile di turno ha poco senso. O forse ne ha. Soprattutto se hai la cattiva coscienza che ti porta a voler mascherare l'ennesimo scempio che l'amministrazione regionale di turno, ieri quella capitanata dall'azzurro Giancarlo Galan, oggi quella capitanata dal leghista Luca Zaia, domani chissà, vuole propinare a quella che fu la Serenissima. Come? Per esempio con un infausto corollario di deroghe in via di approvazione alla già iper-lasca norma sulle cave. Per non parlare poi della legge sulla limitazione del consumo di suolo, sempre in fase di discussione, che in realtà amplifica la possibilità di triturare quel po' di aree verdi che si sono salvate da decenni di autocolonialismo al bitume nel nome di santo Sbancamento, santa Lottizzazione, santa Discarica e santo Sversamento: tutti beatamente assisi nel contemplare il dio dei dei Schei.

Ma la sfiga non termina qui. Perché se anche si volesse procedere con una forzatura spingendo verso un non ben determinabile bilinguismo basterebbe poco per accorgersi che i veneti il Veneto non lo conoscono più. La bellezza e la sapidità delle svariate lingue vernacolari sono andate smarrite. Oggi i veneti, che spesso fanno fatica anche con l'Italiano, non parlano più il Veneto (per quanto difficile sia definirlo). Parlano, come dice lo scrittore Francesco Maino, «il grezzo». Un idioma tennico «paradialettale di consumo... privo di bellezza indigena... impreciso... involgarito dalla cantilena locale e da sillabe sincopate... buono solo per la sopravvivenza dei consumi di massa... senza anima... che serve unicamente, per volontà istituzionale, a risolvere problemi di carattere pratico: ordinare da magnar e da bevar, domandare el conto, riconoscersi tra grezzi, spiegare a gesti la voglia di orinare all'aperto e di condividere alle sagre l'orinata tra grezzi come unico piacere della vita legalmente concedibile».