venerdì 25 febbraio 2011

La "moderorrea" italiana

Si autoproclamano moderati con tale ossessività, i moderati di destra centro e sinistra, che a furia di ripeterlo sembrano tutto fuorchè moderati. Moderati qua, moderati là: è stato il ventennio del moderatismo sbandierato come categoria dello spirito, condizione antropologica, appartenenza razziale. Chi è moderato è ipso facto una persona perbene e porta con sé i caratteri degli “italiani brava gente”: laboriosità, ragionevolezza, pacatezza, generosità, umanità. Chi non lo è, all’inverso, diventa estremista, oltranzista, rissoso, fazioso, ideologico e se insiste e persiste, persino terrorista. Di qua i buoni, misurati e colmi di buone intenzioni, di là i cattivi, litigiosi e perennemente sul piede di guerra.

Moderocrazia
Intendiamoci: è una caricatura che niente ha a che vedere con la realtà. Nel senso corrente del termine, moderatismo è quella sensibilità politica vagamente conservatrice ma che si pretende illuminata, propria dell’Italia profonda che invece è parecchio buia: superficialmente cattolica, aperta alla modernità anche la più sguaiata, filo-americana, appiattita sul pensiero unico industrial-capitalistico, rispettosa delle Istituzioni ma più ancora del proprio tornaconto, ha terrore delle idee troppo forti e ama quelle consolatorie e gladiatorie, legge poco e solo quello che rassicura e blandisce, è attaccata a tradizioni a cui non crede più, provincialotta, patriottica ai Mondiali e ai funerali dei caduti, paternalista, risparmiosa, sgobbona (spesso in nero) ma con una moralità piuttosto lasca, un senso civico molto personale e un’affettata propensione a farsi prima di tutto i fatti propri, privati e di consorteria, piuttosto che impegnarsi per il desueto bene comune. La moderocrazia all’italiana. Tirarsela da moderati, nello spirito del tempo impersonato da quegli imbonitori che devono vendersi come affidabili quando invece ti stanno rifilando la fregatura, è il modo escogitato da certa classe politica per coprire con il manto della rispettabilità, alla vecchia maniera, il proprio squallore etico e una disarmante pochezza ideale e umana.

Finti moderati
L’uomo che ha fatto di questa rappresentazione la propria immagine e bandiera è stato, manco a dirlo, il finto moderato per eccellenza, Silvio Berlusconi. Che moderato non lo è manco per niente, dal momento che chi lo dice sa di non esserlo, e lui ha dato tante e tali prove di essere il contrario, smodato, eccessivo, debordante, arrogante, megalomane, prevaricatore, spregiatore di leggi e buoni costumi, bugiardo inveterato e finto piagnone vittimista, che è di un’evidenza quasi comica la sua abissale estraneità a virtù come saggezza e misura. L’homo berlusconianus sputa sentenze e armeggia opinioni di parte con la bava alla bocca ma non ditegli che non è moderato: se vi va bene vi darà del comunista, se vi va male vi seppellirà di contumelie. Il berluscones è maestro di questa doppia veste che nasconde una doppia morale assunta a regola di vita e condotta politica. Si dichiara sincero democratico, ma dà di coglioni a tutti gli altri, cioè a quelli che non votano per lui, e non riconosce nessun legittimo impedimento alla proprietà volontà di potenza tanto da arrivare a sostenere che la legge è più uguale per lui perché votato dalla maggioranza1. E’ un assatanato giustizialista coi criminali comuni e coi poveracci, ma non appena si toccano gli interessi del padrone, della casta e dei colletti bianchi spara a zero contro la magistratura, insudiciata con le peggiori offese (cancro della democrazia, giudici mentalmente disturbati). Si erge al più liberale dei liberali ma non sopporta, non concepisce il dissenso e la critica, è un intollerante patologico: fa fuori dalla televisione di Stato chi non gli aggrada, fa bastonare con distruttive campagne di stampa chi osa contraddirlo (casi Boffo e Fini) e del conflitto d’interessi ne ha fatto e ne fa un vanto.

Il suo è il partito dell’amore, e poi scaraventa su chi gli si oppone una caterva d’odio da far impallidire un nazista. Ha il mito della famiglia da cartolina, è ossequioso con cardinali e preti, si presenta con le stimmate dell’uomo integerrimo e lavoratore, e contemporaneamente il suo mondo rigurgita di mignotte, prosseneti, ruffiani, mafiosi, corrotti, facce da galera2, pagliacci e pagliacciate (le corna nelle foto ufficiali, il “kapò” dato a un parlamentare europeo, la balla della minorenne favorita di Arcore “nipote di Mubarak”). I suoi giornalisti di riferimento sono Feltri, Sallusti e Belpietro, piazzisti della penna che pur di vendere venderebbero la madre, autori di gazzette di regime, prime pagine piene di insulti, editoriali zeppi di veline e pestaggi mediatici a comando (il fido Fede, poverino, è diventato una tale macchietta e la sua lascivia incensatoria talmente candida che gli vogliamo quasi bene). Il fustigatore della burocrazia è un tale Brunetta, ex socialista naturalmente craxiano, che dà con un livore cieco delle “merde” ai concittadini di sinistra. L’intellettuale per le masse è il telegenico e isterico Sgarbi, uomo di indubbia intelligenza ma di altrettanto indubbia violenza catodica. Il maitre-à-penser per le massaie, invece, è quel Signorini signore della volgarità, sovrano del pettegolezzo da donnette insoddisfatte, gossipparo di corte e ministro della propaganda patinata. Questa è la “casa dei moderati”: una gabbia di cialtroni e servi fanaticamente devoti alla Causa: la Sua, e la propria, in posti, denaro e carriere. Sbruffoni, questi finti moderati, che nulla hanno di moderato tranne che l’assoluta mancanza di senso del limite e del pudore.

Smoderati
La seconda categoria sono gli smoderati. Sono quei bellimbusti un po’ rozzi, che non rivendicano patenti di moderazione perché a loro non importa nulla di rastrellare consensi fra casalinghe disperate e borghesucci rancorosi. Il parco clienti cui si rivolgono, difatti, è composto di gente d’altra pasta, che non si ammanta di sentimentalismi e ipocrisie, ma anzi si compiace di dare addosso, di menar le mani, di far chiasso. Il loro popolo è fatto di radicali, di bollenti spiriti, di scontenti. Tuttavia, godono di un certo benessere economico, presi singolarmente sono delle gran brave persone, hanno un acuto, sebbene opinabile, concetto della libertà e della giustizia, e se la danno schiettamente, ostentatamente, lo siano o meno, da popolani. A destra, sono leghisti. A sinistra, dipietristi.

Entrambi gridano, s’indignano, rumoreggiano e s’inventano sempre nuovi colpi di teatro. Le loro dichiarazioni sono roboanti, i loro accenti sopra le righe, le loro posizioni portate alle estreme conseguenze. I primi sforano volentieri nella battutaccia e nel triviale, i secondi nei modi spicci da sbirro e nel leguleismo alla Perry Mason. I primi sono animati dai risentimenti delle partite Iva tartassate a sangue e dagli operai stufi marci della sinistra al caviale, i secondi dal sacro fuoco moraleggiante di chi non ne può più dell’amoralità vincente e cafona. A ben guardare, sono i meno peggio. Eppure anche costoro sono affetti da una buona dose di doppiezza inconscia: i fan del Carroccio, regolarmente accusati di razzismo, si mascherano da difensori dell’ordine e del decoro; i seguaci dell’ex pm di Mani Pulite si trincerano dietro la suprema Carta e le aule di tribunale. Tutt’e due, insomma, si dipingono come benpensanti ligi ad un populismo che pur avendo ottime ragioni cede troppo facilmente alla gazzarra, alla spacconata, alla sparata da bar.

Supermoderati
Non per niente, questi simpatici parolai si alleano con chi si alleano. La Lega coi moderati fascistoidi del decadente berlusconismo, l’Italia dei Valori con ciò che resta della sinistra. Ecco, la sinistra si divide in due etnie: la cosiddetta sinistra “moderata”, e la sinistra non-moderata, alias estrema o antagonista. Partiamo dalla prima. Altro non è che l’esangue, evanescente e castrato Partito Democratico. Ex comunisti togliattiani e miglioristi, più ex democristiani dossettiani e morotei, fusi alla bell’e meglio con qualche liberal-socialista ingenuo o paraculo e sparuti sopravvissuti dell’inesistente ambientalismo italiano. Una congrega che non avrebbe nulla a che spartire col moderatismo inteso nell’accezione comune, e che proprio per questo, per accreditarsi, per rendersi credibili a quel sentire comune, fanno di tutto per passare per tali. Riuscendoci benissimo, tra l’altro. Lo sforzo di essere la copia carbone appena un po’ più egualitarista e solidarista dei dirimpettai di destra è andato così a buon fine che ora, nel concreto delle scelte e nell’orizzonte dei programmi, sono indistinguibili dagli avversari.

Sono più realisti del re, più moderati dei moderati. Sono i Superman dell’eufemismo, sono i supermoderati: i Veltroni, i Bersani, i D’Alema, i Franceschini, i Renzi, i Fassino. Loro sì che ci danno dentro nel misurare le parole col bilancino, nel maniacale politically correct, nell’angosciarsi a non offendere nessuna sensibilità fosse pure quella degli animali estinti, nel vellicare ogni istinto buonista, mammone e filantropico, nell’aborrire ogni asprezza e durezza considerate con orrore da scolarette. Il loro motto, anche qui a rimorchio dell’altra parte, è “abbassare i toni”, clichè bipartisan tanto caro ai Presidenti della Repubblica e della Conferenza Episcopale Italiana, che serve a coprire le magagne più che a risolverle3.

Sono i polemisti al sonnifero, i pompieri del dibattito, i ragionieri dell’ideale. Sono tristi, smunti, seriosi, boriosi, implacabilmente e fastidiosamente pieni di sé nel loro buonsenso spacciato per senso critico. La vestale del loro (si fa per dire) pensiero è l’affarista Scalfari, illeggibile grafomane con turbe da filosofo. Il giornalismo dalle cui colonne apprendono il verbo quotidiano è quello, tutto moralismo e tartuferia, della Repubblica del pedantissimo Ezio Mauro. Il loro azionista di controllo l’imprenditore democratico, un ossimoro vivente, De Benedetti, che è solo un Berlusconi più furbo e più ammanicato nella finanza internazionale. Il conduttore di coscienze, il moderato, ultramoderato, moderatissimo Fazio con le sue viscide interviste sdraiate a zerbino. Il modello planetario a cui si sono entusiasmati (ma da cui ora non riescono a staccarsi per non riconoscere di essersi clamorosamente sbagliati), Obama il nero per caso: un imbroglio annunciato che solo i trinariciuti della sinistra MacDonald potevano scambiare per anima pia e salvatore del mondo.

Moderati puri e impuri
Agli antipodi, restano i due petali che il Pd sfoglia non sapendo decidersi su quale amare: al centro l’Udc di Casini, a sinistra Sel di Vendola. Il centro è considerato il luogo d’elezione dei moderati, proprio perché in mezzo (in medio stat virtus). In più il centrismo nazionale, come il "Zentrum" tedesco esempio di compostezza nel mondo, è di matrice cristiano-cattolica, e per soprammercato ha un tradizionale filo diretto col Vaticano, a due passi dai palazzi del potere temporale romano. Il titolo di moderati, perciò, sta nel dna degli ultimi eredi della Democrazia Cristiana, alla quale bisogna riconoscere la funzione storica di aver bilanciato al suo interno, in quel variegato universo interclassista che era, le contraddittorie tendenze della società italiana durante i suoi cinquant’anni di ininterrotto governo. Oggi il sapiente ruolo moderatore, degenerato in quel consociativismo e corruzione di sistema implosi con la fine della Prima Repubblica, si è tramutato nel furbesco presidio di uno zoccolo duro di voti legati alla Chiesa. E la Chiesa, avendo cura dell’eternità e dei privilegi di cui gode grazie al regime concordatario, è quanto di più fedele allo status quo ci sia al mondo. Gli ultimi democristiani duri e puri sono l’esempio perfetto del vero valore del moderatismo in politica: edulcorare il discorso, indorare la pillola, ammorbidire le parole, avvolgere lo scontro d’idee in una melassa curiale e sedativa. I dc erano maestri in questo, e i loro nipotini li imitano. Aggiungendovi di loro un pelo sullo stomaco necessario ai tempi che corrono: plaudendo senza batter ciglio all’avanspettacolo di Berlusconi e congiungendosi senza patemi d’animo coi brutti ceffi di Bossi, salvo poi staccarsene, da bravi moderati, accusandoli di eccessi e orrori che prima fingevano di non vedere. L’ipocrisia cattolica: questa santa, ributtante e umanissima scaltrezza che papi, cardinali e parroci hanno infuso alla storia d’Italia e grazie ad essa ai credenti dell’arco costituzionale.

All’opposto di questi veri, pestilenziali moderati, ci sono gli anti-moderati della sinistra sedicente radicale. Anti-moderati a parole. E sedicenti perché, slogan a parte, di radicale hanno poco: non mettono in discussione nessun “fondamentale” del nostro modello di sviluppo, baloccandosi da beoti con l’aggettivo “sostenibile”, né intendono superare l’assetto tecno-capitalistico, contentandosi di correggerlo in senso sociale come socialdemocratici qualsiasi. Per questo motivo sono speculari ai cattolici centristi: perché, al netto delle moraleggianti tirate contro le ineguaglianze e le ingiustizie, l’apporto alla conservazione dell’esistente è equivalente all’incenso dei falsi chierichetti alla Casini. Questi sono moderati di nome e di fatto; quelli, i vendoliani, sono massimalisti fuori e borghesi dentro. Pieni di prosopopea, di maiuscole, di retorica, di “sogni”, di “narrazioni”, di misticismo dei poveri e degli afflitti, contriti, ottusi, sotto sotto nostalgici della vecchia falce e martello, democratici ma solo con chi è di sinistra e altruisti senza rispettare l’Altro da sé (i “fasci”). Però guardandosi bene dal muovere una critica, una sola, che vada in profondità, che intacchi le basi di un modo di vivere livellato e de-spiritualizzato. Illudendosi di essere, come sempre, la punta avanzata del progresso perché si infervorano e scaricano la propria impotenza su battaglie di second’ordine, come il riconoscimento delle coppie gay, l’immigrazione senza limiti e, immancabile nei secoli dei secoli, l’antifascismo.

Porci
Alle somme. Il moderatismo è uno degli “ismi” più bufaleschi e buffoneschi in circolazione: scambia un dato caratteriologico, la moderazione, che attiene alla psicologia e al comportamento individuale e in quanto tale non è generalizzabile, con una rivendicazione d’identità politica che deve invece basarsi su idee e atti collettivi. Testimonia tutta la falsa coscienza di un ceto politico che non ha freni inibitori nello scannarsi e nell’azzuffarsi per depredare la cosa pubblica, e che per seguitare a farlo usa l’etichetta di moderato come uno scudo e un manganello. Come il lupo che si traveste da agnello. O come l’agnello che si maschera da lupo, facendo felice il lupo e continuando a farsi tosare e spolpare da vero agnello. Porci.

Alessio Mannino
da La Voce del Ribelle del 10 fennraio 2011
link di riferimento


Cenni e riferimenti
1. «Sì è vero la legge è uguale per tutti ma per me è più uguale che per gli altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani», La Repubblica, 17 giugno 2003
2. Come l’indimenticato Cesare Previti: «Se vinciamo, stavolta non faremo prigionieri», Il Messaggero, 15 aprile 1996
3. Josè Mourinho, ex allenatore dell’Inter, pur con tutti i suoi difetti una grande verità una volta l’ha detta. Parlava di quello schifo che è diventato il calcio italiano, ma trasponendo il discorso alla politica il senso rimane intatto: «Io dovrei abbassare i toni? Abbassiamo i toni. Però, vi ricordo che è proprio abbassando i toni che c'è stata e si è sviluppata Calciopoli. Uno scandalo terribile, una vergogna. Ricordo che lavoravo in Portogallo, ma sapere che accadessero cose del genere nel mondo in cui lavoravo mi faceva mettere vergogna, avevo vergogna di dare da mangiare alla mia famiglia con un lavoro che in Italia era così sporco. Io non c'ero qui, ma adesso ci sono e sono onesto. Già, io sono arrivato in Italia onesto e me ne andrò da onesto: però, adesso abbassiamo i toni, così siete tutti più felici...», Il Corriere della Sera, 25 febbraio 2010

martedì 22 febbraio 2011

Il raglio del bavaglio

«La conferenza stampa convocata oggi da Franca Equizi è parsa fin dal principio organizzata ad uso e consumo dei colleghi di Annozero. Equizi infatti annuncia di avere depositato il 17 febbraio un esposto alla procura di Venezia… perché, dice testualmente, altri esposti fatti a Vicenza non hanno avuto seguito. Segno si potrebbe pensare che forse non erano fondati». Si può cominciare con un commento un pezzo di cronaca alternando come in una fanzine del liceo fatti e commenti? Si può pensare che un cronista della TV, che non sia del Tg1 di Minzolingua o del Tg4 di Emilio Fido, si lasci andare ad un comportamento che mai dovrebbe caratterizzare un giornalista, non dico bravo, ma quanto meno decente? Al buon Tiziano Bullato di Tva Vicenza evidentemente qualche pensierino del genere deve essere frullato per la testa quando ieri più che un cronista sembrava un avvocato Matlock in salsa berica. Al grido silenzioso di tengo famiglia ha cercato di creare un cordone sanitario attorno alle vicende del senatore Alberto Filippi al quale consiglio di affidarsi a più dotati armigeri dello status quo berico. Certo l’argomento era scottante, certo ai piani alti avranno fatto chissà quali raccomandazioni visto che alla conferenza stampa si sono presentati quattro uomini della questura che «non hanno acquisito» con una procedura formale la documentazione presentata dalla Equizi, ma si sono limitati ad andare da quei giornalisti con i quali sono in buoni rapporti ad elemosinare la copia dei documenti, per evitare una figuraccia davanti alle telecamere della Rai. Lasciamo perdere la bullata relativa ad un eventuale procedimento contro Franca Equizi per ricettazione, procedimento che si incardina eventualmente con l’azione del magistrato, non certo per la decisione dell’agente della questura che si infila alla conferenza stampa come i compagni di classe sfigati alla festa delle medie. «Lei una volta ricevuto il materiale avrebbe dovuto consegnarlo alla polizia e non usarlo» tuona Bully dimenticandosi che Equizi lo ha inviato alla magistratura e non «l’ha usato» né scambiato con un bancarellaro di “Porta Portese”. Magari per una copia pirata de “Le pornomassaie fanno i gnocchi cor culo”.  D’altronde per capire che Tva ieri non ha mandato in onda che una bullata basta fare l’analisi logica dell’abbrivio del pezzo: «La conferenza stampa convocata oggi da Franca Equizi è parsa fin dal principio organizzata ad uso e consumo dei colleghi di Annozero. Equizi infatti annuncia di avere depositato il 17 febbraio un esposto alla procura di Venezia…». Ma dov’è il nesso? È come dire “le accuse sono pretestuose perché il caffé scotta” oppure “c’è un complotto contro Berlusconi perché Di Pietro si rade dal barbiere”. Eh, la strizza… Eppure di novità da raccontare in quelle carte ce ne sono. Basta sfogliarle. Ora ascoltate quella cosa là pubblicata da Tva e poi leggete ciò che ha pubblicato VicenzaPiù. Un pezzo di cronaca e un commento. I fatti distinti dalle opinioni. Ma a Vicenza si preferisce la scuola Minzolini. Si può tranquillamente spezzare una lancia a favore di Filippi. Basta non confondere le acque. E soprattutto basta farlo con intelligenza. Touché, anzi Bullé.

Marco Milioni
link originario

lunedì 21 febbraio 2011

Confermato: Italia schiava degli Usa

Servi, servi, servi. Questo siamo per gli Americani, che giustamente trattano l’Italia da padroni in casa altrui. I cablo di Wikileaks pubblicati dall’Espresso e da Repubblica non sembrano lasciare adito a dubbi: il governo Berlusconi si è prostrato come uno stuoino davanti a tutte le richieste, pardon diktat, degli Stati Uniti. Intendiamoci: la battaglia ingaggiata dalla stampa repubblichina contro il ducetto di Arcore omette di ricordare che, pur se con minore facilità data la presenza dei guastafeste di estrema sinistra, anche un governo gradito a Carlo De Benedetti si sarebbe messo sull’attenti di fronte all’arroganza da panzer di Washington. Ma il servilismo di Roma è tanto peggiore proprio perché trasversale.

La lista dei signorsì è lunga. Una selezione dei più indecorosi: in Afghanistan aumento stabile del numero di soldati da 2.600 a 4.200, invio di altri aerei ed elicotteri da combattimento, eliminazione dei “caveat” che impedivano l’impiego di nostre truppe al fianco dei marines in azioni offensive e, umiliandoci come i soliti italiani vigliacchi quali siamo, la perentoria richiesta di finirla di pagare tangenti in denaro a talebani e capi-tribù pur di evitare attentati. Riguardo l’Iran, l’impegno a non stipulare nuovi contratti, noi che siamo uno dei primi partner commerciali del paese degli ayatollah. Accettazione entusiasta, puntualmente verificatasi, di prigionieri provenienti dal carcere horror di Guantanamo, e non solo quelli precedentemente risiedenti in Italia, ma anche altri per i quali si è trovato un apposito escamotage giuridico (cioè se coinvolti in inchieste penali italiane). A Sigonella, mandare in porto la dislocazione dei Global Hawk, ricognitori teleguidati che possono spiare oltre le linee nemiche, già approvata dal governo Prodi. A Niscemi, in provincia di Caltanisetta, zittire la popolazione contraria all’antenna Muos, snodo di un sistema planetario di comunicazione per raggiungere i contingenti Usa in ogni parte del globo. A Camp Derby, ottenere rassicurazioni sullo stoccaggio delle cluster bomb, micidiali ordigni che una volta esplosi trasformano il terreno circostante un inferno di mine: il sottosegretario alla presidenza del consiglio Letta conferma che non ci saranno problemi, e infatti, al trattato internazionale che mette al bando questa tipologia di bombe, manca ancora la firma del nostro paese.

Ma la questione che rende di un’evidenza tragicomica l’appecoronamento di Palazzo Chigi e della Difesa è l’extraterritorialità per le basi statunitensi presenti sul suolo italiano. I diplomatici Usa si ritengono soddisfatti per il felice esito della vicenda Dal Molin, la seconda caserma americana a Vicenza che riunirà la 173sima brigata di paracadutisti in qualità di sede dell’Africom (il comando per il quadrante africano). Siamo nel 2008, e sulla costruzione di Camp Ederle 2 pende il rischio che il Consiglio di Stato, chiamato a giudicare dal ricorso avanzato dai No Dal Molin sul presunto “interesse nazionale”, possa dichiarare l’operazione illegittima. Tranquilli, dice il ministro della difesa La Russa agli Americani preoccupati: se per caso i supremi giudici dovessero darci torto, troveremo comunque una soluzione. Non sarà necessario, perché gli illustri ermellini daranno via libera. Dal Pentagono però fanno sapere di esigere che nell’area della nuova base la sovranità territoriale sia americana. Attualmente questa vale solo per le basi costruite nel dopoguerra (come la Ederle 1), ma ora la Costituzione vieta di estenderla a quelle di nuova costruzione. Sono gli stessi yankee a escogitare la via d’uscita: far passare l’Africom, quindi il secondo insediamento, come la continuazione giuridica del primo, che ospita la Setaf, il vecchio comando per l’Europa Meridionale. In pratica, come ha ben scritto il Presidio No Dal Molin, «è come se un nipote pretendesse di aver diritto alla pensione del bisnonno deceduto, portandone lo stesso cognome». Letta accetta senza fiatare. Il disprezzo per la Carta costituzionale è tale che il suo compare La Russa s’inventa un’ulteriore trovata per garantire l’extraterritorialità di un’altra installazione militare in progetto a Gricignano d’Aversa, vicino Caserta, che radunerà i marinai della Sesta Flotta: un patto bilaterale ad hoc che permetta all’esercito Usa di essere totalmente indipendente nella sicurezza interna.

Ricapitoliamo: c’è un alleato, gli Stati Uniti, che pretende, impone e dispone delle nostre forze armate all’estero e del nostro territorio nazionale come più gli piace, fino a indurre il nostro governo a violare la Costituzione, legge fondamentale di uno Stato, l’Italia, ancora formalmente sovrano. E il governo italiano non solo non cerca di resistere, smussare o addivenire a un compromesso – quanto meno per salvare la faccia se non proprio la dignità nazionale – ma s’inchina a ogni volere anche il più inaccettabile e ricorre a ogni sorta di cavillo pur di obbedire. Senza chiedere nessuna contropartita, senza darsi alcuna premura di difendere l’interesse del proprio paese. Tutte cose sapute e risapute, benché sapientemente manipolate e fatte passare in sordina. Ma sempre cose che fanno ribollire il sangue. Soprattutto in tempi in cui si festeggia uno sgangheratissimo compleanno della Patria (quale? Quella eterodiretta dai Bush e dagli Obama?) ed è affidata a un comico, Benigni (l’ex Cioni Mario di Berlinguer ti voglio bene da anni normalizzatosi a giullare del perbenismo) l’esegesi dell’inno nazionale al festival di Sanremo. Non sono solo canzonette: siamo solo canzonette. Siamo la parodia di una nazione.

Alessio Mannino
da www.ilribelle.com del 21 febbraio 2011
link di riferimento

sabato 19 febbraio 2011

Affaire Cis e sponsor fantasma: da Filippi a Signorin bufera sulla Lega

A Vicenza e provincia è in arrivo una vera e propria bufera politica che potrebbe concentrare sul Carroccio la sue sferzate. Al momento nel vortice mediatico sono finiti Massimo Signorin e Alberto Filippi, rispettivamente vicesindaco di Arzignano e senatore della Repubblica. Il primo è sotto accertamento dal parte della GdF berica per «evasione fiscale totale e distruzione di documenti contabili». L'azienda di famiglia del secondo invece è finita sotto la lente della magistratura penale vicentina per un presunto giro di sponsorizzazioni fantasma. Sponsorizzazioni che ruoterebbero attorno al faccendiere arzignanese Andrea Ghiotto, uno dei volti più noti della maxi inchiesta per evasione fiscale nel settore concia della Valchiampo denominata Dirty Leather. I giornali locali di ieri hanno pubblicato un lungo elenco delle aziende coinvolte, ma non sono stati indicati i nomi dei soggetti eventualmente colpiti da uno o più avvisi di garanzia; la stessa incertezza vale anche per l'onorevole Filippi, mentre della indagine a carico di Signorin è stato dato ampio risalto.

POLEMICA DI SETTEMBRE. Signorin, che riveste anche la carica di consigliere provinciale sempre del Carroccio, nel settembre dello scorso anno era stato al centro di una durissima contesa politica dopo che durante la trasmissione Presa Diretta su Rai 3, aveva in qualche modo giustificato l'evasione fiscale. All'epoca le minoranze di centrosinistra chiesero le sue dimissioni, ma la maggioranza fece quadrato attorno a lui.

IL SENATORE. Ancora diversa è la posizione del senatore leghista Filippi. Anche quest'ultimo era stato oggetto dell'indagine giornalistica di RaiTre, ma all'epoca non emersero dettagli penalmente rilevanti. Dai quotidiani di ieri invece si è appreso che la magistratura starebbe vagliando la posizione di Unichimica, l'azienda di famiglia specializzata nella fornitura di prodotti per le concerie. Non si sa al momento se Filippi o altri suoi familiari siano sottoposti ad indagine penale.

AFFAIRE CIS. Sempre dalla lettura dei quotidiani di ieri emerge che tra le aziende che avrebbero concesso sponsorizzazioni alle società di Ghiotto, riprendendo poi indietro parte delle stesse senza contabilizzarle, ci sarebbe la lombarda Immobiliare Arco. Quest'ultima è una srl di Brescia che sarebbe in trattativa con Cis spa. Una compagnia berica a prevalente capitale pubblico che dovrebbe realizzare un chiacchieratissimo centro merci a Montebello Vicentino. L'operazione (l'intero piano è pari a 500.000 metri quadri), bollata dai detrattori come una colossale speculazione edilizia, ha registrato il massimo della contestazione quando si è saputo che in una parte del comparto originariamente pensato per l'interporto potrebbe essere realizzato un centro commerciale di 80.000 metri quadri. Una fattispecie che potrebbe generare una plusvalenza immobiliare di non poco conto per i privati (proprio i Filippi), che dopo un travagliato accordo con Cis spa, hanno avuto o stanno per avere la disponibilità di una superficie ad uso commerciale e logistico pari a 250.000 metri quadri.

L'EX LEGHISTA "PASIONARIA". In questo contesto agitato si inserisce così Franca Equizi. Un ex consigliere municipale leghista al comune di Vicenza (socio di Cis spa), espulso dal Carroccio. Equizi da anni si batte «contro la speculazione edilizia legata al Cis» tanto che per lunedì 21 febbraio ha annunciato una conferenza stampa nella quale dovrebbe rivelare «particolare clamorosi» proprio sull'affare Montebello. A palazzo Nievo, sede della provincia (un altro fra i soci del Cis) si vocifera infatti di un possibile esposto alla procura di Vicenza condito con particolari scottanti.

L'ARRESTO. Tant'è che sembra non esserci pace per il Carroccio berico. Quest'ultimo infatti a fine gennaio ha dovuto patire anche l'arresto di Alessandro Costa. Ex assessore leghista alla sicurezza a Barbarano Vicentino (è stato espulso dal partito peraltro) il 38enne, che di mestiere fa il vigile urbano, secondo la procura di Padova è tra i gestori di un ramificato giro di squillo. La decisione dell'uomo di tenere per sé comunque la carica di consigliere comunale senza rassegnare le dimissioni ha mandato in subbuglio la maggioranza di centrodestra che regge le sorti dell'esecutivo di Barbarano. Un esecutivo nel quale il primo cittadino leghista Roberto Boarìa, non ha preso le distanze il suo ex collega di giunta, proteggendolo da uno scomodo dibattito in aula.

Marco Milioni
link originario

venerdì 18 febbraio 2011

I nomi delle società coinvolte

La società che avrebbe versato di più in sponsorizzazioni a Grifo Arzignano srl sarebbe stata Galbiati e partners srl di Verona: 8 milioni 320 mila euro, con retrocessione dell'86% pari a 7 milioni 155 mila euro 2. Samia spa di Arzignano, per anni main sponsor della squadra di calcio a 5: dal 2003 al 2009 avrebbe versato 2 milioni e 620 mila euro (vedendosi restituire da in nero 1 milione e 746 mila) 3. Pasubio spa di Arzignano 2 milioni (1,6 milioni) 4. Arzignanese srl di Arzignano: 1 milione e 900 mila euro (1,5 milioni) 5. Tfl Italia spa di Milano: 1 milione e 300 mila (1 milione e 79 mila) 6. Pressing srl di Montorso: 1 milione 218 mila (974 mila) 7. Unichimica srl di Torri di Quartesolo: 970 mila (873 mila) 8. Alcyone sas: 900 mila (774 mila) 9. Faeda spa di Chiampo: 505 mila (454 mila) 10. Pfcmna spa: 500 mila (re- trocessione totale) 11. Adler di Marana Lino &C. srl di Arzibgnano: 427 mila (341 mila) 12. Master spa di Lonigo: 400 mila (320 mila) 13. Osmo srl di Arzi- gnano: 390 mila (312 mila) 14. Fibipel srl di Chiampo: 356 mila (retrocessione dopo l'acquisto di giocatori per circa 190 mila euro) 15. Gold incastonatura snc di Vicenza: 270 mila (totale) 16. F.lli Marinello srl di Selvazzano: 249 mila (224 mila) 17. Flora spa di Arzignano: 240 mila (216 mila) 18. Immobiliare Arco srl: 180 mila (162 mila) 19. Uniderm srl di Arcugnano: 105 mila (94 mila) 20. Micra srl di Arzignano: 100 mila (80 mila) 21. Essegi 2 srl di Arzignano: 100 mila (80 mila) 22. Fra.Mi srl di Vicenza: 95 mila (85 mila) 23. Italmarmi group srl di Chiampo: 93 mila (74 mila) 24. Pell &Co società cooperativa di Arzignano: 90 mila (72 mila) 25. Dal Lago Pierluigi lavorazione ferro di Lonigo: 84 mila (67 mila) 26. Mekoll srl: 80 mila (64 mila) 27. Top leather srl di Arzignano: 70 mila (totale) 28. Ilenpell srl di Montebello: 68 mila (54 mila) 29. Corichem srl di Arzignano: 65 mila (58 mila) 30. Polar srl di Arzignano: 65 mila (52 mila) 31. Edilipiazza srl di Arzignano: 60 mila (30 mila) 32. Autovega srl di Arzignano: 60 mila (48 mila) 33. Lydra srl di Brendola: 60 mila (48 mila) 34. Hotel Principe srl di Arzignano: 59 mila (totale) 35. V.T.N. Europe spa di Pojana M.: 56 mila (44 mila) 36. G.E.M.M. automation service sas di Lonigo: 54 mila (43 mila) 37. Stelpel srl di Arzignano: 50 mila (40 mila) 38. FM srl di Trissino: 50 mila (40 mila) 39. Verza Antonio srl di Arzignano: 45 mila (36 mila) 40. Ortopedia sanitaria Rensi di Arzignano: 45 mila (36 mila) 41. Tiesse nord srl di Arzignano: 43 mila (34 mila) 42. Celme srl di Montebello: 40 mila (32 mila) 43. Coriumchem srl ora Spring Tannery srl: 40 mila (36 mila) 44. Luma srl di Trissino: 40 mila (32 mila) 45. T.F.P. snc di Zermeghedo: 40 mila (32 mila) 46. Mardegan Rossetto snc di Monselice: 38 mila (30 mila) 47. Unionpelli srl di Arzignano: 35 mila (18 mila) 48. Di.A.Ma pellami srl di Chiampo: 35 mila (28 mila) 49. Protec srl di Vicenza: 31 mila (24 mila) 50. Leonardo srl di Vicenza: 31 mila (24 mila) 51. Sicura srl di Vicenza: 31 mila (24 mila) 52. Caneva '937 srl di Arzignano: 30 mila (24 mila) 53. Molon Paolo di Arzignano: 30 mila (24 mila) 54. World leather srl di Montorso: 28 mila (22 mila) 55. Pro.Chimica service snc: 25 mila (20 mila) 56. Trading leather srl di Chiampo: 20 mila (16 mila) 57. Storti Carla assemblaggi di Brendola: 20 mila (16 mila) 58. Elettrocasa 2 srl di Arzignano: 18 mila (14 mila) 59. Emmevi snc di Arzignano: 9 mila (7 mila) 60. Orovicenza di Picaro Cristina di Arcugnano: 8 mila (7 mila).

da Il Giornale di Vicenza del 18-02-2011; pagina 20

venerdì 11 febbraio 2011

La Lega, Bossi e il futuro dei ribelli vicentini

A due giorni dal ballottaggio che eleggerà il nuovo segretario provinciale della Lega Nord vicentina, i bookmakers danno per favorita la Busetti (appoggiata dal duo Finozzi-Dal Lago) sullo sfidante Grande, candidato dei ribelli di Lovat. E si capisce: la sindaco di Thiene è un’esponente della vecchia oligarchia, ha il doppio degli anni di Grande, rappresenta la continuità rispetto al correntismo senza idee. Con lei, insomma, anche gli sconfitti del primo turno, la Bizzotto e Stefani che avevano puntato su Fongaro, possono in teoria trovare un accordo per il dopo. Ma, come pare dalle voci di corridoio, i voti di Filippi erano già andati a lei e se quelli che fanno capo alla Bizzotto dovessero marcare visita al voto di domenica all’hotel Viest, se dovesse vincere la sua potrebbe essere una vittoria nient’affatto schiacciante. O potrebbe anche perdere.

L’esito dipenderà, in sostanza, da quanti saranno e da come voteranno i sostenitori dello scartato Fongaro. Il differenziale soppeserà il valore politico della rivolta Lovat-Grande, che in ogni caso hanno già conseguito un risultato importante: «sia che vinciamo, sia che perdiamo, la coscienza del movimento leghista è cresciuta», secondo le parole di Lovat sul Gazzettino di oggi. Tradotto: si è imposta all’attenzione del Carroccio, soffocato da una cronica mancanza di democrazia interna, la necessità di un ricambio. Basato non sulla pura e semplice sostituzione di una classe dirigente con un’altra uguale e contraria, ma sulle idee, passate via via in secondo piano per l’assalto alla caréghe e per una gestione del partito sprofondata in una permanente lotta fra ras locali. Una tara antica quanto la Lega stessa. E con un colpevole preciso: Umberto Bossi. Lo spiegava già il compianto Gianfranco Miglio in quell’aureo libretto che ha titolo “Io, Bossi e la Lega”: «Raramente [il Senatùr] ha avuto la mano felice nello scegliere i suoi collaboratori, sia al suo livello che sul territorio. E soprattutto non ha avuto la pazienza e l’energia necessarie che covavano o esplodevano nella periferia della Lega. Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda».

Questa sollevazione in piccolo, tutta vicentina, vincente o perdente che risulti sul piano dei numeri, dovrà dimostrare in futuro di voler mettere in discussione il peccato originale, l’obbedienza cieca e canina, indegna di uomini liberi, a un vertice romanizzato e poltronaro. Nel ventennale della fondazione della Lega Nord (l’unione delle varie leghe settentrionali) che si celebra proprio questo mese, i segni d’insofferenza per il giogo al carro del piduista e affarista Berlusconi nella pancia del partito si fanno sempre più forti. Tanto che ieri ne ha dato conto, parlando di una voglia di tornare alle origini, persino il Corriere della Sera, negli ultimi anni sdraiato come una sogliola ai piedi del verbo tremontiano-leghista interprete delle partite Iva e delle pmi. E’ fisiologico e giusto che il rinnovamento parta dal basso, ma sarebbe una grave colpa da addossare ai suoi animatori se non puntasse in alto. Chiaramente è comprensibile che per ragioni tattiche i ribelli rendano ossequio alla somma autorità di Bossi e dei suoi proconsoli veneti Zaia e Gobbo. Ma si rivelerebbero un bluff se non facessero almeno il tentativo di porre la questione generale che potremmo riassumere col detto secondo cui “il pesce comincia a puzzare dalla testa”. Gradualmente e con le armi della dialettica, con un Bossi avviato alla pensione e un berlusconismo agonizzante, la prova a cui sono chiamati potrebbe non finire con una cacciata per ordini superiori, come è accaduto a tutti coloro che in passato nella Lega hanno osato pensare col proprio cervello. Come per esempio è successo, per stare a Vicenza, alla leghistissima ma indipendente Franca Equizi. Insomma, quello di Lovat e soci potrebbe essere un primo passo perché il Carroccio torni ad essere una forza politica popolare e utile al paese. Non una centrale della partitocrazia, che ne costituiva il nemico iniziale (ricordate?) e che invece l’ha risucchiata e inglobata rendendola indistinguibile, nei suoi alti papaveri romani e locali, dagli altri partiti-mafie.

Alessio Mannino
link originario

giovedì 10 febbraio 2011

Ci rivedremo a Filippi? Lo dirà un "beau geste"

Sulla stampa molto si è parlato del caso Cis. Durante le ultime settimane poi ha tenuto banco il “beau geste” che Alberto Filippi, senatore del Carroccio, annuncia urbi et orbi: vendere una maxi area di proprietà della famiglia nel comune di Montebello Vicentino, già interessata da un cambio d'uso da agricolo a commerciale-logistico, prima che la medesima area possa essere benedetta anche dal necessario nullaosta annonario della regione Veneto utile per ospitare una grande struttura di vendita. Struttura che sarebbe ospitata su 60-80.000 metri quadri, su 250.000 metri quadri di area privata complessiva. Un'area alla quale ne è affiancata una di pari grandezza di proprietà di Cis, una spa a prevalente capitale pubblico sul fondo della quale dovrebbe nascere un sempre meno probabile polo logistico.

Tale “beau geste” da parte di Filippi, sarebbe dettato dalla volontà di non lucrare sul combinato tra cambi d'uso e licenza commerciale il quale conferirebbe un plusvalore alla intera operazione di una quarantina di milioni di euro.

Ora Filippi sa che da sempre sono contrario a questa operazione, anche prima che intervenisse nell'affare la società della sua famiglia. I motivi sono di natura prettamente urbanistica. Ma il nodo che il senatore deve sciogliere è un altro. La querelle non sta in piedi solo se il senatore ci lucra o meno. La querelle starebbe in piedi anche se il senatore, per ipotesi, vendesse il lotto allo stesso prezzo al quale lo ha comperato. Perché quella differenza, quei quaranta milioni in più, se li cuccherebbe de facto chi subentra. Il quale farebbe un affare comperando a poco prezzo un'area che vale oro. Di conseguenza i sospetti al posto che volar via da Filippi continuerebbero ad aleggiare su di lui e pure sull'acquirente.

Quei quaranta milioni di euro di plusvalore infatti, sempre che 40 siano, sono in realtà il risultato di due azioni combinate. Uno, il cambio tout court della destinazione d'uso dell'area. Due, il fatto che la famiglia Filippi, a costo zero, abbia permutato il lotto meno pregiato (quello appiccicato alla ferrovia) con quello più ambìto, attaccato alla statale. Si tratta quindi di un potenziale plusvalore derivante non dal buon uso del capitale privato, bensì dal trasferimento, seppur indiretto, di asset collettivi a beneficio di privati. Se quindi speculazione doveva essere, anche per ripianare i debiti di Cis, perché la speculazione non l'ha fatta l'ente pubblico? Ergo, se Filippi vuole davvero fare un “beau geste” e rinunziare a cotanta cuccagna dovrebbe vendere a prezzo di costo i suoi terreni proprio a Cis spa, la quale una volta ottenuta la licenza dalla regione, potrebbe rivendere a terzi facendo lucrare gli enti pubblici: un esito tristissimo sul profilo ecologico, meno per le casse della collettività. Tale operazione per di più cancellerebbe il debito accumulato in anni di una gestione sciagurata della spa pubblica.

Epperò c'è un'altra considerazione da fare. Siamo sicuri che il mero cambio di destinazione d'uso da agricolo a commerciale-logistico, pur senza licenza annonaria, non comporti di per sé un prelibato plusvalore? Di più. Viviamo in tempi bui. A livello nazionale assistiamo ogni giorno a storie di intrecci perversi tra politica ed affari. Fiduciarie, società off-shore, paradisi fiscali, conti cifrati sono divenuti termini quasi abituali nel vissuto comune collettivo.

Proprio in questo contesto, un semplice cittadino potrebbe fare questo ragionamento: “ma chi ci garantisce che una eventuale plusvalenza, che si venda o meno con la licenza commerciale, non possa giungere alla famiglia Filippi anche col tramite di fiduciarie o società schermo”? In forma lecita sia ben chiaro, nessuno qui accusa nessuno. Si tratta solo di una richiesta di chiarimenti.

Alberto Filippi a differenza di tanti suoi compagni di partito nel Carroccio, specie tra i big, è uno che non si nasconde dietro ad un dito. Affronta le questioni di petto e non ha paura di esprimere il suo punto di vista. Io credo che vorrà farlo soprattutto dopo questo post. Se poi dovesse decidere di vendere la sua area allo stesso prezzo di costo, ovvero d'acquisto, proprio a Cis spa, allora sì la sua comunità dovrebbe ringraziarlo per un gesto di grande eleganza e di grande responsabilità. Il tempo parlerà per tutti. Ci rivedremo a Filippi?

Marco Milioni
link originario

mercoledì 9 febbraio 2011

Cis, se vende senza licenze Filippi ci “rimette” 40 milioni

Domanda delle cento pistole. Quale persona di senno rinuncerebbe a una somma che si aggira sui 40 milioni di euro pur di mantenere il seggio in Senato e potere guardare tutti negli occhi, soprattutto i suoi avversari, lanciando il guanto di sfida all'insegna dell'interrogativo: «Provate voi se avete il coraggio?».

Il senatore Alberto Filippi sulla vicenda del Cis sta davvero attraversando momenti a dir poco imbarazzanti. Da un lato gli amici-avversari Sergio Berlato ed Elena Donazzan (il primo europarlamentare, la seconda assessore regionale del Pdl) gli muovono battaglia sostenendo il «no a nuove e ulteriori autorizzazioni all'ampliamento delle superfici da destinare alla grande distribuzione commerciale», all'indomani del via libera dato dalla giunta guidata da Luca Zaia, che consente al parlamentare di passare all'incasso dopo la trasformazione dell'area Cis da logistico a commerciale.

Il ragionamento sotteso dei due pidiellini è che Filippi ha operato una speculazione immobiliare che gli consente di staccare una forte plusvalenza. Nello stesso tempo, però, ed ecco spiegato perché il senatore della Lega è davvero tra due fuochi, i famigliari e suoi professionisti gli dicono di attendere a vendere l'area il giorno in cui sarà dotata di licenze, perché allora sì che farà una scorpacciata di quattrini. Tutti guadagnati lecitamente. Appunto sui 40 milioni (ma l'ultima stima si aggira addirittura sui 45 milioni di euro) che consentirebbero al senatore e ai famigliari di vivere tranquilli tra due guanciali per generazioni. Insomma, il consiglio è che abbandoni la politica parlamentare nella quale è impegnato dal 2006, quando l'area del Cis i Filippi l'avevano già acquistata in contanti dopo avere dato in garanzia alla banca i propri beni per farci sopra la nuova azienda.

Invece poi è successo che i comuni limitrofi, soprattutto Montebello, hanno cambiato idea, anche perché nel frattempo la logistica ha sentito la crisi economica, e i maggiori azionisti dell'area Cis (Provincia su tutti) hanno cominciato a preoccuparsene perché dietro l'angolo se non fosse stata mutata la destinazione d'uso c'era il fallimento. Nel mezzo c'è il povero, si fa per dire, Filippi, che da un lato si sente dire dagli alleati-avversari di avere brigato per trasformare l'area in commerciale, quando il senatore replica che l'interesse vero l'avevano gli enti pubblici. Certo, anche lui ci guadagna, per carità, ma dovendo poi acquistare altra terra per trasferire la sua azienda chimica da Torri di Quartesolo, alla fine della fiera farà patta qualora dovesse vendere - come ha promesso - senza licenze.

Dall'altro lato, lo stesso Filippi deve far fronte ai congiunti e ai professionisti che l'assistono e che gli dicono che “è mona” per non dare un calcio alla politica e vendere con le licenze i 220 mila metri quadrati del Cis incamerando una plusvalenza stratosferica che consentirà prima di tutto a lui - e alla bella Monica che presto sposerà -, e poi ai famigliari, di vivere alla grande. Per sempre, in ossequio alla legge.

E lui, il senatore-imprenditore prestato alla politica? Va avanti imperterrito perché dice che per lui la parola d'onore non ha prezzo. Una rarità, visti i tempi. Perché comunque i Filippi sono benestanti e perché non si vive di solo pane. E poi vuoi mettere un politico che dice di no a una montagna di soldi? Non lo si trova tutti i giorni. «Per me è una soddisfazione, la parte idealista che convive in me è prevalente - ripete -, per questo Berlato e la Donazzan prima di parlare dovrebbero conoscere come stanno le cose. A meno che non parlino per partito preso».

Ivano Tolettini
da Il Giornale di Vicenza del 29 gennaio 2011; pagina 27

martedì 8 febbraio 2011

Lega al ballottaggio, ribelli alla prova

A svelare quale sarà l’esito finale dei posizionamenti nonché dei rimescolamenti fra correnti e gruppi personali nella Lega Nord vicentina, sarà solo il ballottaggio per il posto di segretario provinciale. Un ballottaggio fra Bobo Grande e Mary Busetti che è già in calendario per domenica 13 febbraio. Può sembrare banale ricordare quello che è un dato scontato in tutti i partiti democratici; ma non è affatto banale se si parla del Carroccio che democratico, al suo interno, non è mai stato. Non nell'accezione formalmente corretta della parola. Cioè osservando la regola di elezioni dal basso che giungano a scegliere i dirigenti fino al vertice più alto attraverso il voto. Lo scontro tra le sue fila, il partito padano, lo ha sempre inteso come una zuffa permanente, benché occultata, fra ras locali e bande al seguito. L'esistenza dei quali deve passare al vaglio della volontà divina del sommo Capo Umberto Bossi. Divergenze programmatiche o di natura ideologica? Nessuna. Soltanto feroci rivalità fra caporioni, che quando non sono dovute ad ambizioni puramente egoistiche, spesso riflettono interessi clientelari o di certi imprenditori amici.

La ribellione di Davide Lovat e di Grande ha costituito una novità positiva perchè per la prima volta, almeno a nostra memoria, ha messo in campo ragioni progettuali, idee insomma (ritorno al venetismo, riscoperta della questione sociale, no alla cementificazione commerciale). Va reso merito all’ideologo Lovat di aver attaccato la nomenclatura degli Stefani e delle Dal Lago con argomenti, invece di dare l’assalto alla segreteria non dicendo nulla di diverso dagli avversari, ripetendo così l’ennesima, sudicia lotta per il potere. C’è chi sostiene che i ribelli in realtà ne stiano cavalcando una uguale e contraria, ma sapendo abilmente contraffarla col richiamo al leghismo delle origini. E anche se fosse? Se vincesse Grande sarebbe comunque una conquista per la Lega. Nella quale invece di celebrare il solito congresso-farsa, in cui si alza un gran polverone che poi viene messo sotto coperta dando a ognuno dei soliti quattro capi-bastone una fetta della torta, la vittoria verrebbe assetgnata ad una parte che vivaddio si fa portavoce di istanze popolari.

Perché il punto centrale della contestazione di Lovat è sacrosanto: i leghisti vicentini da troppo tempo vanno appresso a signorotti che il leghismo lo intendono esclusivamente come una riserva elettorale su cui fare carriera e accumulare privilegi. Manu Dal Lago, ex liberale, con la testa è sempre alla sua lista civica da buttare nella mischia per diventare sindaco di Vicenza (con l’immancabile collaborazione del fido omologo di sinistra Ubaldo Alifuoco). Stefano Stefani, che con la sconfitta del suo Fongaro al primo turno congressuale si è preso una bella scoppola, passa da una poltrona romana all’altra. Dietro di lui, ma sempre più davanti a lui, si scalda la Bizzotto, per ora confinata a Strasburgo. Alberto Filippi vorrebbe farci credere di essere roso da dubbi amletici: vendere o non vendere l’area di sua proprietà a Montebello? Vorrebbe farci credere, l’imprenditore di Unichimica, che guadagnerebbe la bellezza di 40 milioni di euro solo dopo che siano state rilasciate le licenze per costruirvi, quando invece è ovvio che la plusvalenza è data dal cambio di destinazione d’uso da agricolo a commerciale a cui la giunta regionale di Zaia ha dato via libera di recente.

Dice: ma Paolo Franco, che gioca un gioco suo ma che molti danno come più vicino alla Dal Lago, favorirebbe Grande, suo vice nella segreteria in scadenza. Anche qui: embè? Ammesso (e non concesso) che sia così, quel terzo di votanti andato a Grande non può essere considerato un voto meramente manovrato. A meno di non ritenere proprio i leghisti più scontenti un branco di soldati cretini. Inoltre, è stata la Dal Lago a fare di tutto per far espellere Lovat e Grande, minaccia rientrata dopo la loro affermazione al primo voto del congresso. Infine, se dovessimo dar comunque credito all’ipotesi machiavellica di una Manuelona che nell’ombra spinge i ribelli ma che per coprirsi ne reclama l’espulsione, ora ci aspetteremmo che cercasse, non sarebbe la prima volta, del resto, l’accordo sottobanco con Stefani & Company per far fuori gli “utili idioti” e restare padrona del campo con una Busetti eletta plebiscitariamente ammassando i voti suoi e di tutte le altre fazioni, Filippi compreso (il più ostile a Lovat e ai suoi). Il che porterebbe i fronti ad una guerra totale fra vecchia oligarchia e nuova Lega di battaglia.

Come si vede, il fronte ribelle ha tutto da guadagnare nel perseguire con decisione la strada della contrapposizione netta ai feudatari di ogni risma, si chiamino Dal Lago, Stefani o Filippi. La ragione stessa dell’insurrezione sta infatti proprio nell’aver messo pubblicamente in discussione gli equilibri, le pastette e i personalismi di stampo democristiano del Carroccio berico. Durante questa settimana che manca al ballottaggio, siamo curiosi di vedere quali segnali manderanno, per capire se quella strada sarà battuta fino in fondo. Hasta la victoria siempre, rebeldes!

Alessio Mannino

link originario

giovedì 3 febbraio 2011

Marghera come la Somalia

«... A questo punto è ipotizzabile pensare che Marghera sia ben più di un disgraziato sito per lo stoccaggio di reflui nocivi. Marghera ha l’odore di un vero e proprio santuario tossico le cui cripte non possono aperte. Se la cosa accadesse potrebbe venir fuori la stessa melmosa realtà che è già emersa in altre realtà industriali del nord in cui lo smaltimento illegale dei rifiuti non è una eccezione. È la norma in un mondo industriale infetto da un virus letale. Un virus per il quale le imprese, la maggior parte, non possono fare gli utili che programmano, se non smaltiscono irregolarmente, se non evadono il fisco, se non lesinano sulla sicurezza, se non trovano scorciatoie di comodo col favore della politica e delle istituzioni. Insomma aprire questo vaso di Pandora veneziano significherebbe mettere alle corde un intero sistema culturale prima che produttivo. E di fronte ad un blocco sociale così compatto e diffuso non c’è magistratura che tenga. Arzignano docet». Ho usato queste parole per chiudere l’ultimo capitolo della mia inchiesta sull’affaire Marghera. L’inchiesta è stata pubblicata. Ma al di là delle peripezìe giudiuziarie un giorno mi piacerebbe che in questa città si discutesse di un tema ancor più dirimente. Questa non è solo una storia di malaffare vero o presunto. In questa piccola grande storia vicentina c’è tutta la contraddizione nella quale la società occidentale ha portato il resto del globo. Si possono fare inchieste, approfondimenti, si può chiamare Marco Travaglio, Report, Exit, il Guardian; si può fare appello ad un tir di premi Pulitzer. Ma i giornalisti, se fanno bene il loro mestiere, raccontano i fatti, spiegano le dinamiche. Ma c’è un altro piano da considerare, più profondo. Tutti quanti dobbiamo domandarci dove vogliamo arrivare. In una società dove l’unico senso è dato dal denaro, è normale che episodi del genere si verifichino. Mutatis mutandis la storia di Marghera non è poi tanto diversa da quella dei rifiuti finiti in Somalia. Io credo che siano il modello di sviluppo e la cifra culturale ad essere ormai fuori scala. Ma su queste cose dovremmo cominciare ad interrogarci solo dopo avere fatto un serio esame di coscienza che al momento è impossibile. I cattivoni di turno alla fine non sono null’altro che gli incaricati, bene remunerati, di una società ipocrita che non vuole vedere i prodotti di scarto, necessari per mantenere in vita il suo way of life sempre più precario per altro. In realtà il mondo nella sua accezione economica non è che un planetario falso in bilancio.

Marco Milioni
link originario
SCARICA VICENZAPIÙ DEL 28-01-2011