lunedì 28 marzo 2011

I tre referendum, perché voto sì

Siccome mettono i bastoni tra le ruote ai piani del governo Berlusconi e delle lobby industriali, c’è un silenzio di tomba sui tre referendum che si terranno il 12 e 13 giugno. Sul campo i sostenitori, partiti, movimenti e associazioni, si danno da fare come possono per sensibilizzare una popolazione ipnotizzata dalla sporca guerra alla Libia. Il regime mediatico ce la mette tutta, dal canto suo, per censurare l’appuntamento: da una parte la televisione quasi tutta in mano al Cavaliere, dall’altra la grande stampa che prende ordini dai padroni del vapore interessati ai business minacciati dalle consultazioni popolari. Nei prossimi mesi, tuttavia, pur tenendo l’encefalogramma del dibattito al livello più basso possibile, i manipolatori di professione dei tg e dei giornali dovranno occuparsene. Per il momento non voglio entrare nel merito tecnico dei tre quesiti, che bene o male verrà ampiamente sviscerato. Mi limito a fornire per ciascun tema il perché al mio sì a tutti e tre.

Dopo più di venti anni dal no che affossò il nucleare in un’Italia scioccata da Chernobyl, la carcassa fumante di radiazioni dei reattori di Fukushima congelerà anche questa volta la corsa all’atomo italiano. Credo che su questo punto così caldo i referendari vinceranno a mani basse, le immagini del Giappone devastato sono troppo vicine per far passare la paura. Ma al di là dell’umano fatto emotivo e delle varie e ottime ragioni contro l’uso della tecnologia nucleare (costi, scorie, ecc), personalmente sono contrarissimo per due motivi. Uno: non si vede perché mai si debbano regalare a costruttori, multinazionali energetiche e crimine organizzato (mercato nero dell’uranio) montagne di miliardi pubblici con cui ingrassarsi più di quanto non siano già grassi alla faccia della gente che fatica a campare. Il lobbismo che macina affari nello squallido retrobottega della politica è il cancro della sedicente democrazia. Secondo: se la prospettiva per salvare l’unico mondo che abbiamo è invertire la marcia suicida della crescita illimitata, pensare di continuare con questi ritmi di vita e di produzione e anzi di alimentarli perché si estendano di volume e vadano ancora più veloci, significa peggiorare le cose. Io, di questa follia, non intendo essere complice.

Sull’entrata a gamba tesa dei privati nella gestione dell’acqua, che è già avvenuta in alcune parti d’Italia, non c’è solo una questione di principio, e cioè che l’acqua è un bene pubblico e dall’alba dei tempi a nessuno è stato mai negato un sorso, ovvero, fuor di metafora, la disponibilità a fruirne liberamente. Già questo basterebbe. Ma anche ammesso che le amministrazioni pubbliche non riescano a sostenere le spese per mantenere un servizio d’erogazione efficiente, allora mi si deve spiegare a cosa serve ancora il pubblico. Se non garantisce più nemmeno l’acqua, tanto vale che vengano privatizzate pure la polizia, l’esercito, la magistratura e via di questo passo. Ormai non c’è nessuna remora alla logica del profitto. Invece bisogna affermare chiaro e forte che un limite esiste. Ci tolgono tutto, bisognerà pure ricominciare a dire no.

E veniamo al referendum più assurdo: l’abrogazione della legge sul legittimo impedimento, il lodo Alfano salva-premier. Dico assurdo perché se diventa necessario ricorrere al popolo per ripristinare il principio cardine su cui dovrebbe reggersi una democrazia, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, vuol dire che il parlamento è composto da una manica di sovversivi cialtroni. Sovvertono lo stesso ordinamento da cui traggono la legittimazione per il loro potere, e lo fanno nella più indecente incoscienza, pensando che l’interesse particolare del cittadino Silvio Berlusconi coincida con quello dell’Italia. Naturalmente, nell’armata di avvocati-parlamentari berlusconiani la malafede abbonda. Ma quello che fa torcere le budella è il fatto che nello scardinare le istituzioni e piegare la legge ai propri scopi non si rendono conto di fare carne di porco del residuo senso civico degli italiani. Segano il ramo su cui sono seduti. Quasi quasi verrebbe voglia di lasciarli fare e attendere il redde rationem, perché verrà il tempo della rivolta e allora non ci sarà Costituzione o codice a difenderli. Ma il senso di profonda ingiustizia che suscitano leggi ad personam con il lodo Alfano è più forte di qualsiasi fiducia in una ipotetica resa dei conti, perciò io voto sì.

In un sistema in balìa di oligarchie politiche ed economiche com’è il nostro, i tre referendum di giugno rappresentano l’occasione per mandare un segnale agli oligarchi. Devo dire che comincio a essere un po’ stufo di inviare solo messaggi, col misero strumento di una scheda individuale. Ma almeno questo facciamolo, per far sapere che noi non abbiamo subìto.

Alessio Mannino
da www.ilribelle.com del 25 marzo 2011
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venerdì 25 marzo 2011

Non possiamo accettarlo

Naturalmente, faranno anche questa. Ormai l’arroganza e l’orgia del potere incontrollato non hanno più limiti: la democrazia non è più nemmeno ridotta a un guscio formale; il rispetto di norme e convenzioni non regge davanti a un'incuranza e a un'ignoranza che non conoscono più limiti; le opinioni pubbliche non esistono più, annegate nel marasma del bla-bla televisivo e mediatico dove tutti gridano, nessuno sta a sentire e nessuno incide sulla realtà che è invece gestita da una banda di gangsters e dai loro gregari.

Il mondo arabo è in fiamme, ma le notizie arrivano frammentate e quasi casuali. Lo Yemen è sull’orlo di una guerra civile; gli emirati arabi uniti (gli stessi che collaborano alla missione “Odissea all’alba” sui cieli della Libia) usano le loro spietate polizie per soffocare nei loro paesi le richieste di libertà; la Tunisia è lasciata a se stessa, e la gente di là puo solo scappare sulle carrette natanti verso Pantelleria.

Gheddafi uccide. Non è la prima volta. Lo faceva anche quando era nostro amico e nostro complice; anche quando distribuiva libretti verdi ad alcune puttanelle e accettava i baciamano dei suoi soci in affari e colleghi di quel che le convenzioni obbligano ancora a definire “di governo”. Anche altrove si ammazza, si reprime, si tortura, s’imprigiona. Ma il punto, per il democratico Occidente, non è intervenire dove piu difficili sono le situazioni e più dura si fa la ferocia degli assassini. No. Il punto è scegliere secondo convenienza e al tempo stesso mostrare i muscoli. Dopo l’esportazione della democrazia di buona irakena memoria, siamo alle “ragioni umanitarie”: e lo stesso presidente della repubblica finge di crederci: e recita la commedia del “questa-non-è-una-guerra”. Mentre qualcuno, da destra e da sinistra – contano, ormai, le distinzioni? -, si chiede se in fondo non sarebbe meglio far maggior attenzione a chi stiamo appoggiando, e che i ribelli di Bengasi potrebbero esser peggio dei lealisti di Tripoli, potrebbero addirittura essere, orrore!, dei “fondamentalisti”… e quindi “terroristi”. Come a dire che qui quel che conta non è intervenire a tutela dei più deboli, una balla in cui non crede nessuno, bensì colpire chi si ritiene più pericoloso per i propri interessi. Chi è peggiore, allora? Il rais che doveva essere richiamato all’ordine in quanto minacciava d’introdurre nel business del petrolio libico dei partners non graditi agli occidentali, o i “ribelli” che magari sognano un tipo di assetto che domani potrebbe avanzare qualche pretesa compromettente, ad esempio circa l’assetto del Mediterraneo o del Vicino Oriente? Intanto, noi scivoliamo sempre più nel ridicolo: abbiamo un ministro della Difesa che, reduce da un raid aereo dannunziano sull’Afghanistan, ora cita il D’Annunzio della guerra di Libia della quale, guarda caso, ricorre il centenario (lo facciamo un bel Colony Day, signor ministro, con tanto di caschi coloniali di sughero da distribuire alle scuole?). Abbiamo un ministro degli Esteri che ora minaccia di uscire dalla coalizione, se i francesi non la smetteranno di giocar al capofila: ci vuole la NATO, che diamine, vista anche la bella figura che sta facendo in Afghanistan…

No, diciamolo chiaro. Noi non contiamo nulla e non possiamo far nulla. Da Grosseto, si alzano i caccia che bruciando i nostri soldi vanno ad ammazzar gente in Libia per difendere le popolazioni civili e le “ragioni umanitarie”, insieme con i caccia degli emirati arabi uniti (retti com’e noto da celebri governi umanitari) e i danesi e i canadesi, che sono interessatissimi alla faccenda poiché, com’è noto, Canada e Danimarca bagnano le loro coste nel nostro Mediterraneo (per tacer d’inglesi e d’americani). L’ONU ha dato l’ennesima riprova della sua ignavia e incapacità: ma la risoluzione del suo Consiglio di Sicurezza che autorizza non si sa chi a ”tutte le misure necessarie” è stata immediatamente onorata, più o meno come quelle contro Saddam: e alla buon’ora, dal momento che, come tutti sanno, vi sono numerose risoluzioni che invece sono state più volte adottate e vengono pervicacemente ignorate dalla comunità internazionale.


L’operazione militare “Odissea all’alba”, che nelle intenzioni proclamate dai suoi promotori - in primis il presidente franecse Nicolas Sarkozy - avrebbe il solo scopo d’impedire pesanti ritorsioni aree delle truppe del rais Gheddafi sulla popolazione civile delle aree del paese libico per ora nelle mani dei “ribelli”, è scattata in modo inatteso sabato 19 marzo 2011: il presidente francese ha sorpreso “di contropiede” la comunità internazionale trascinandola in un’avventura che l’ONU ha provveduto a tempestivamente legittimare, pur non potendo celare l’imbarazzo. Una mossa avviata in modo maldestro, che ha dato luogo a una coalizione “equivoca”, nella quale gli Stati Uniti hanno dato l’impressione di essere entrati di malavoglia e solo per non cedere ai francesi il primato dell’iniziativa. Gli “alleati” che, per dirla col ministro degli esteri italiano Frattini, “non potevano essere assenti” dall’azione - un parere, questo, a dire il vero piuttosto debole e sembra tiepidamente condiviso dallo stesso presidente del consiglio - hanno l’aria di costituire un insieme alquanto eterogeneo, che va dalla Spagna alla Danimarca al Qatar. Non è né ONU, né Unione Europea, né NATO. Tutto ciò, in barba e in spregio a due princìpi che dovrebbero essere chiari.

Primo, quello dell’autodeterminazione dei popoli: di tutti i popoli, non solo di quelli che qualcuno a Washington o a Parigi ritiene virtuosi. E’ un principio-base della convivenza e del diritto internazionale. Serve a evitar di cadere in una jungla dove valga solo la legge del più forte. Da vent’anni, cioè dai tempi del Kosovo e della prima guerra del Golfo, se ne fa strame. Non possiamo più tollerarlo. La Libia e un paese sovrano: mentre è giusto cercar di aiutarlo in ogni modo in questa difficile contingenza, è chiaro che non esiste alcuna autorità ad essa esterna che può imporre dal di fuori al popolo libico la soluzione dei suoi problemi.

Secondo, quello dell’iniziativa comunitaria. Gli interventi umanitari da parte della comunità internazionale debbono esser decisi primariamente ed esclusivamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite: che non può andar a rimorchio di nessuno, contrariamente a quel che fece nel 2003 con gli USA a proposito dell’Iraq e a quel che ha fatto adesso a rimorchio della Francia.

Aggiungiamo che la NATO (North Atlantic Threaty Organization) non avrebbe alcun titolo per intervenire in quel Mediterraneo nel quale invece spadroneggia; e che sarebbero ormai ora che i paesi membri dell’Unione Europea, dopo aver dato tante e tanto squallide prove di sé, cominciassero ad agire di comune accordo fra loro - e senza aspettare il placet americano o farsi travolgere dei fulmini di guerra degli emuli del Bonaparte - e a tracciare insieme un abbozzo di comune politica di difesa.

Infine, l’Italia avrebbe avuto tutti i titoli storici e geopolitica per avanzare una seria ed energica proposta mediatrice tra Gheddafi e gli insorti: avrebbe dovuto farlo energicamente e tempestivamente, e a tal fine avrebbe dovuto chiedere con forza un mandato internazionale. Ma, per fare cose come queste, ci vuole un governo. Non una “loggia coperta”, o un’organizzazione volta a organizzare profitti e festini, o un’organizzazione a delinquere.

Franco Cardini
da www.francocardini.net; 21 marzo 2011

giovedì 24 marzo 2011

L'onore dei leghisti

Se avessero maggior rispetto di sé stessi, i leghisti con una coscienza - e ce ne sono - dovrebbero organizzare una “giornata dell’onore”. Dovrebbero chiamare tutti gli ex leghisti espulsi, fuoriusciti e marginalizzati dal padre-padrone Bossi e dai suoi gerarchi in questi vent’anni di dittatura nella Lega Nord. Dovrebbero ascoltare le loro storie, dato che il nostro è un paese di smemorati. E poi dovrebbero porsi una domanda: cosa ci sto a fare in un partito militarizzato dove la coerenza è alla mercé della convenienza, e gli ideali di fondazione sono stati messi sotto i piedi per il potere?

Il caso del vicentino Davide Lovat è solo l’ultimo in ordine cronologico di una lunga serie di epurazioni. Nella Lega circola un adagio: “I leghisti sono liberissimi di pensare come Umberto Bossi”. Autoironia o autocommiserazione, dopo vent’anni dalla nascita il movimento che riunisce le leghe settentrionali non si è evoluto secondo le regole della democrazia, ma è rimasto quello che era ai suoi stradaioli inizi: una caserma di soldatini che obbediscono alla volontà del comandante Bossi (o del “cerchio magico”, il quadrumvirato Manuela Bossi-Rosi Mauro-Marco Reguzzoni-Federico Bricolo che secondo i beninformati ne filtra e condiziona gli ordini).

Così oggi il Carroccio è un agguerrito e famelico ibrido fra una neo-Dc descamisada, che a Roma governa e sul territorio fa man bassa di poltrone, e una setta leninista in cui i congressi locali fanno da paravento a lotte intestine fra ras e correnti. Coloro che hanno osato dissentire sono stati fatti fuori uno a uno. La lista è lunghissima e ve la risparmiamo. Basti dire che il reato di lesa maestà in tutti i casi è consistito nell’aver fatto presente che la propria opinione era diversa dalle decisioni calate dall’alto. Vietato pensare con la propria testa, vietata la discussione alla luce del sole, vietata la libertà di espressione (che per inciso è il principio cardine di una liberal-democrazia). Lovat, dirigente locale che s’era illuso di trovare sponde fra i capetti vicentini, è autore di un libro (“Tu sarai leghista! Leghista sarai tu!”) che gli ha procurato una fama sinistra fra i suoi: essere un intellettuale, e per giunta critico.

Lovat, infatti, non fa mistero della propria avversione per i “signorotti delle colline”, i feudatari che hanno imbrigliato la “Lega di popolo” in una opaca rete di interessi economici e clientelari contro l’originario spirito anti-sistema. Nello specifico, Lovat il ribelle, il rottamatore, ce l’ha con i parlamentari Manuela Dal Lago, Stefano Stefani e Alberto Filippi. Ma più in generale con la degenerazione affaristica in cui sono cadute le camicie verdi negli ultimi dieci anni, che discende dall’abbraccio definitivo con Berlusconi e il berlusconismo (vedi l’assalto alle fondazioni bancarie come Cariverona, cabina di comando di Unicredit, o la sfacciata corruzione di esponenti di partito, ad esempio nel distretto della concia di Arzignano). Per aver proposto un ritorno alle origini, identificate nell’identitarismo (venetismo) e nella lotta per la legalità, e soprattutto per aver tentato di contrastare gli oligarchi vicentini in occasione dell’ultimo rinnovo del segretario provinciale berico a febbraio sostenendo Roberto Grande che ha ottenuto il 40% dei consensi, Lovat è stato messo alla porta.

Prima con un sms (sic!). Poi, finalmente, con una lettera di espulsione in cui la motivazione era spiegata in mezza riga: «gravi ragioni che ostacolano e pregiudicano l’attività del movimento», fine. Morale (si fa per dire): dentro la Lega ci sono pregiudicati, condannati e indagati per evasione fiscale, per false fatturazioni, per peculato, per bancarotta fraudolenta, per incitamento all’odio razziale. Davide Lovat è incensurato, dopo aver dismesso le sue attività di immobiliarista ha un normalissimo lavoro come professore di liceo, non ha più alcun incarico e si vede cacciare per direttissima, senza avere la possibilità di difendersi e senza neppure che qualcuno gli fornisca un valido perché. Ma lui lo sa benissimo: ha commesso l’errore di fare come si fa in democrazia: contrapporre le proprie idee ad altre. Ha commesso però l’errore di sottovalutare il vizio d’origine del leghismo: essere, congenitamente e strutturalmente, una forza anti-democratica. Nella quale si fa carriera per meriti dinastici (il Trota messo a capo dei media del partito, una vergogna) e non per la qualità che caratterizza gli uomini liberi: avere una coscienza.

Se avessero le palle, quei militanti della base che hanno votato Grande non se ne starebbero zitti nelle tane in cui sono tornati, usi a ubbidir tacendo. Lovat l’ha detto chiaramente alle telecamere di Presa Diretta su Rai3: oggi i partiti sono i cavalli di troia di gente che pensa agli affari, propri o di coloro di cui sono a libro paga. Tutti, Lega compresa. Sapete benissimo che è così, e la galleria degli epurati è lì a dimostrare che chi fa politica per le idee, invece, viene trattato come un nemico. Se ci siete, leghisti onesti e coerenti, battete un colpo. Altrimenti la vostra è solo paura, paura e disonore.

Alessio Mannino
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mercoledì 9 marzo 2011

Bocciodromo, il gioco delle parti

Sul nuovo Ya Basta inaugurato sabato 5 marzo all’ex bocciodromo in zona Ferrovieri si è scatenata una polemica ipocrita e strumentale. Ipocrita perché era un’ipocrisia sostenere che il centro gestito dalle quattro associazioni vincitrici del bando (Web Lab, Giovani dei Ferrovieri, Pensionati per la Pace e Polisportiva Jackie Tonawanda) sarebbe stato un luogo a disposizione di chiunque. La motivazione con cui i gestori avevano presentato la propria attività era quella di un servizio per il quartiere: «L’ex bocciodromo sarà un centro civico socioculturale rivolto al quartiere e alla città, con cui coinvolgeremo più fasce di popolazione, non solo i giovani» (Il Giornale di Vicenza, 31 gennaio 2010).

In realtà, come nei palazzi della politica vicentina sanno anche i sassi, un accordo fra il mondo dei disobbedienti che fanno capo al Presidio No Dal Molin e l’amministrazione Variati c’è stato. Un’operazione politica perfettamente legittima, dato che la gara è stata aggiudicata in modo del tutto regolare, ma pur sempre frutto di un calcolo: dare alla sinistra antagonista uno spazio - a cui aspira fin dall’abbattimento dello storico centro sociale di via Battaglione Framarin - per non averla nemica e assicurarsene il consenso. È un salutare atto di verità che oggi lo stesso bocciodromo con un comunicato ufficiale abbia ammesso di essere un ritrovo di parte: «il Bocciodromo non è un pubblico esercizio, è una sede associativa aperta a coloro i quali condividono le finalità e gli obbiettivi delle associazioni che avevano a suo tempo vinto il bando di gara. L’antirazzismo e la lotta all’esclusione sociale, la solidarietà, l’antifascismo, sono i punti cardinali, oltre che i valori sanciti a livello statutario». Non c’è niente di male in questo. Ma ora ogni ambiguità è stata spazzata via.

C’è voluta però una spedizione di ragazzi della Lega, del Pdl e della Destra che, inutile girarci intorno, sapeva di pura provocazione. Ha detto bene il sindaco Variati in una nota diffusa in giornata: è stato «come se un gruppo di cacciatori si presentasse, in pelliccia e armati di trofei, nella sede di un'associazione animalista, pretendendo di poter accedere solo perché lo stabile dato in concessione all'associazione animalista è di proprietà pubblica». Se non era un mistero per nessuno la reale natura del bocciodromo, tanto meno lo era per i giovani padani e di destra, che l’anno scorso, per bocca dell’onnipresente assessore regionale Donazzan, fascista vera, avevano sputato fuoco e fiamme sull’ex circolo dei Ferrovieri bollato come un covo di «illegalità», dove c’è il rischio di «obnubilarsi la mente assumendo stupefacenti» o addirittura «vi sia la possibilità di ospitare immigrati clandestini piuttosto che distribuire alcolici senza licenza» (Giornale di Vicenza, 2 febbraio 2010).

L’inferno o quasi, insomma. La solita criminalizzazione preventiva che risponde a un’esigenza, anche qui, faziosa: attaccare la giunta di centrosinistra.
Ora, sfruttare ogni occasione per contestare l’avversario fa parte del gioco delle parti, nulla di scandaloso. Se non fosse che ci va di mezzo un principio cardinale della democrazia: la libertà di espressione, che deve valere in tutti i casi. Chi scrive lo ricordò anche al Partito Democratico, che, tramite il suo ex segretario Claudio Veltroni, aveva mostrato di esserlo gran poco decretando una sorta di apartheid razziale contro chi non la pensa come lui («non potrebbe essere accettato che si costituisse un "centro sociale" collegato alla rete dei disobbedienti», febbraio 2010). Se le associazioni legate al mondo no-global hanno partecipato al bando e si sono viste assegnare l’edificio secondo le norme, la destra può pure fare tutto il chiasso che vuole ma non può chiedere che siano sloggiate solo perché non ne condivide le idee. E i blitz per entrare quando si sa benissimo come si verrebbe accolti, superano la soglia del sacrosanto dibattito, perché fomentano proprio ciò di cui poi, soprattutto a destra, da finte verginelle, ci si lamenta: l’odio politico.

Un’ultima considerazione. Il razzismo ideologico alberga sia a sinistra sia a destra. Al di là di ogni giudizio sul merito delle contrapposte ideologie (quando la piantiamo, ragazzi, di giocare a fascisti e antifascisti come se l'Italia fosse ferma al 1945?), è giusto che ogni gruppo possa disporre di uno spazio suo. Perciò, giovani di destra, invece di rompere premeditatamente i coglioni ai vostri omologhi di sinistra, fate casino in Comune, rompeteli all’amministrazione. Che se intende davvero rappresentare l’intera città, dovrebbe favorire una concessione analoga a quella conseguita dagli ex-Ya Basta. Solo così sputtanereste il giochino. E se proprio avete la smania delle ispezioni fulminee, suggerisco di farne una, quando sarà, al futuro centro giovanile all’ex asilo Burci. Là sì che avrete tutto il diritto di accusare Variati di politicizzare a suo favore una struttura che deve nascere per tutti. Senza eccezioni.

Alessio Mannino
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lunedì 7 marzo 2011

La parola a Lovat

Manuela Dal Lago è la mia peggior nemica per scelta sua, non mia. Lo è sempre stata. Sul Corriere ho solo corretto un errore di due giorni prima, commesso dalla giornalista che mi aveva attribuito frasi mai pronunciate. Se poi l'on. Dal Lago avesse commesso errori procedurali è solo perché non è affatto così brava e precisa come fa credere a tutti da sempre. Anche altri dicono che ha sbagliato, ma a me non interessa. Sono stato espulso e in effetti è un controsenso che uno come me rimanga nello stesso partito di Stefani-Dal Lago-Filippi. Evidentemente ho sempre sbagliato io.
 
Infine: non ho mai cercato posti e i fatti sono prove, rivendico l'ottimo operato del direttivo di cui ho fatto parte (e certi provvedimenti non li ho votati oppure ho votato contro, informatevi meglio ma non da chi ha interesse a diffamarmi), infatti ho criticato la prepotenza degli onorevoli, non il direttivo, e ancora i fatti mi danno ragione; non ho mai leccato il culo di nessuno perché non ho bisogno di niente, finché ho la salute. Io sono incorruttibile e mi piego solo davanti al Crocifisso, solo a Lui rispondo della mia coerenza. Altri si piegano davanti agli uomini e alle donne, non io. Chi inventa cavolate deve venire a dirle in faccia, non nascosto da un nickname.
 
Credo negli ideali dello Statuto della Lega Nord, quegli ideali non accolti dal primo direttivo tenuto dalla Segreteria Busetti nonostante una mia precisa mozione. Dunque traggo le conseguenze. Chi sta protestando, usando anche il mio nome, lo fa perché ha capito che è intollerabile l'abuso commesso: se il primo partito è in mano agli umori di due persone, di cui una è il perspicace Stefani, allora tutti i cittadini della provincia sono in mano a una sola persona e ai suoi referenti esterni.... Non è ammissibile come principio democratico.
 
Per il resto, pensate ciò che volete. Io sono commosso di vedere che decine di sezioni della Lega Nord di tutta Italia, e centinaia di sconosciuti, stanno aderendo alla protesta su facebook dicendo "sono io Davide Lovat". Ora tornerò solo ai miei amati libri, saranno più felici la fidanzata, i familiari e gli amici che mi dicevano da anni di lasciar perdere la politica perché sono troppo limpido per quel mondo, nessuno più mi criticherà dicendo che voglio visibilità quando il 15 marzo terrò una conferenza a Rosà o il 15 Aprile a Longare.
 
In effetti, dalla scuola al lavoro, dallo sport al servizio militare, dalla famiglia alla parrocchia, ovunque io sono sempre stato apprezzato per come sono: solo in Lega Nord ho sentito ogni sorta di infamia sul mio conto, cose indicibili e vergognose. Evidentemente non è il mio ambiente.

Davide Lovat

sabato 5 marzo 2011

"Io sono Davide Lovat"

La Lega Nord è il principale movimento politico del Veneto ed il corretto sviluppo del confronto democratico al suo interno è un fatto che riguarda non solo gli iscritti, non solo gli elettori leghisti, ma tutta la popolazione che la Lega Nord concorre a governare, spesso in posizione preminente.

Il diritto alla partecipazione politica secondo metodi democratici è sancito dalla Costituzione e in qualsiasi movimento il dibattito interno e la circolazione delle informazioni sono elementi imprescindibili in un contesto democratico. Possono svilupparsi anche modi diversi di interpretare la militanza e il sentimento di appartenenza, ma tutti sono ugualmente degni di trovare spazio di espressione, purché riconducibili all’ortodossia statutaria. Davide Lovat si è fatto portavoce di un gruppo che ha richiamato la militanza su alcuni temi fondamentali, e che con il candidato Segretario Roberto Grande ha raccolto nel primo turno il 32% dei consensi ed al secondo turno il 40%:

- l’autodeterminazione dei popoli della Padania ed il NO alle feste per l’unità d’Italia sulla base delle motivate ragioni storiche del Popolo Veneto,
- la non proliferazione immobiliare e di centri commerciali in fase economica stagnante e in fase demografica recessiva,
- la libertà di espressione interna al movimento,
- la rappresentatività sociale e territoriale degli eletti nelle istituzioni,
- l’Identità Veneta e le problematiche attuali del lavoro dipendente,
- la cosiddetta “questione morale”, ovvero la consapevolezza che per realizzare la Padania necessitano Donne e Uomini leali, onesti, trasparenti.

Siamo rimasti in attesa di avere risposte chiare su questi problemi, pronti anche a dare il nostro contributo al lavoro della nuova Segretaria, alla luce del sole. Una risposta scioccante è invece arrivata dal Consiglio Nazionale del 26 febbraio 2011, dove il militante Davide Lovat è stato espulso dal movimento con modo, merito e metodo senza alcun precedente. Riteniamo questo un atto di forte disorientamento per tutta la militanza della Provincia di Vicenza e non solo, ma anche per tutti gli elettori al quale riesce purtroppo facile il paragone tra questa solerzia e la titubanza nel prendere provvedimenti con gli iscritti che finiscono oggetto della cronaca giudiziaria, infangando il movimento e mettendo in tal modo in dubbio perfino la stessa regolarità nello svolgimento del Congresso Provinciale. Ma, alla luce di questi fatti, comprendiamo meglio cosa intendesse la nuova Segretaria Busetti con la dichiarazione rilasciata al Giornale di Vicenza, domenica 20 Febbraio, quando affermava di non aver bisogno di una coscienza critica, poiché la legittimità del suo successo al recente congresso, determinata dai voti ricevuti proprio da certe persone (senza i quali sarebbe arrivata ultima e non avrebbe partecipato al ballottaggio), verrebbe fortemente minata dalla coerenza con qualsiasi tipo di coscienza.

Nel ribadire in modo chiaro che c’è una differenza ideologica tra chi, come noi, dichiara apertamente l’adesione ai principi dello Statuto della LEGA NORD PER L’INDIPENDENZA DELLA PADANIA, e tra tutti gli altri iscritti, chiediamo un sussulto di dignità al nostro movimento, che porti a:
1) reintegro immediato di Davide Lovat come SOM del Movimento Lega Nord – Liga Veneta – Padania;
2) prese di posizione altrettanto chiare e nette contro tutti gli iscritti, senza distinzione di “cariche” che siano motivo di vergogna per noi militanti.

Si raccolgono firme da chiunque si riconosca in quello che è scritto (militanti, sostenitori, cittadini elettori). Le firme si appongono e si possono inviare (QUANTO PRIMA ED IN MODO INSISTENTE) alle Segreterie Provinciale, Nazionale e Federale
Fax provinciale: 0444965497 Fax nazionale: 0499668619 Fax federale: 026454475
Mail Provinciale: info@leganordvicenza.com
Mail Nazionale: ligaveneta@tin.it
Mail Federale: non c’è, casomai dal sito www.leganord.org accedere alla sezione “dillo alla Lega” ed inviare da lì.

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