mercoledì 25 novembre 2020

Il reato di diffamazione va abolito: è il preambolo della censura


È di queste ore la notizia della sentenza di condanna per diffamazione rimediata da Paolo Mocavero, volto storico di Centopercentoanimalisti, dopo che l'attivista era stato querelato dall'ex calciatore Roberto Baggio. Al di là del fatto che la condanna appare incomprensibile perché le frasi di Mocavero non hanno in alcun modo travalicato la sfera penale. Ma al di là della questione giuridica la cosa scandalosa è che nel 2020 esista ancora il reato di diffamazione e soprattutto è ancor più scandaloso che qualcuno possa citare in sede civile chicchessia per diffamazione. Bisogna una volta per tutte rompere il giocattolo del reato di diffamazione (o delle azioni civili ad essa collegate), una delle armi più misere e meschine al contempo con cui il potere tiene a bada il dissenso. Alle idee e alle opinioni non può essere posto alcun limite, mai. Il resto è fuffa o dittatura.

domenica 22 novembre 2020

Le «liaisons incroyables» tra Zaia e il Ministero della salute

Oggi 22 novembre 2020 l'Espresso, da pagina 30 a pagina 40, pubblica una serie di approfondimenti assai interessanti in tema di sanità ai tempi del coronavirus. Alcuni dei temi trattati riguardano le «liaisons incroyables» tra il Ministero della salute, i vertici politici della Regione Veneto (in primis il governatore Luca Zaia), quelli della Regione Emilia. In una delle inchieste de l'Espresso si parla anche del vicentino Domenico Mantoan, già direttore generale della sanità veneta. Sempre una testata del gruppo Espresso (La Nuova Venezia) alcuni giorni fa ha parlato di un altro big della sanità veneta. Si tratta di Giorgio Palù, che ora siede sullo scanno più alto dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco.

sabato 21 novembre 2020

Caso Morra: quando la mala-fede abbonda



Non c'è nulla di scandaloso nelle frasi proferite da Nicola Morra sull'ex governatore della Calabria Jole Santelli. E male, anzi malissimo, ha fatto lo stesso Morra, ad abbozzare una sorta di scusa. Coloro che lo hanno criticato o sono in mala fede (magari perché intendono in qualche modo preservare il sistema sanitario calabrese dallo scandalo che tra massoneria deviata e 'ndrangheta che da sempre lo investe) o perché non capiscono una emerita fava. Il politico che non tiene nel dovuto conto il suo stato di salute, pur nella umana comprensione della cosa, deve essere criticato. Il che vale anche per chi lo sostiene. Viene da ridere poi leggendo le invocazioni alla pietas di certi detrattori del politically correct (giornalisti inclusi), molti dei quali a destra, che di solito si scagliano contro questo atteggiamento. Farebbero pena se, intellettualmente parlando, non fossero dei disonesti... Verrebbe da dire che i difensori della Calabria hanno toppato ancora.

mercoledì 11 novembre 2020

Il voto regionale e «la deriva del M5S»

Sono passate diverse settimane dalla conclusione della partita delle elezioni regionali ed ora a freddo è possibile tracciare un affresco più nitido delle dinamiche che hanno sotteso al voto. Per il bassanese Francesco Celotto, già candidato per il M5S, che negli anni ha abbandonato la politica e pure l'Italia preferendole la Spagna, «in generale si assiste ad un arretramento della Lega, incapace di sfondare in regioni come Toscana e Puglia». Anche dove la coalizione di centrodestra vince la Lega si assesta su percentuali uguali o addirittura inferiori al risultato delle Europee 2019 dando spazio ad un significativo incremento nei consensi a Fratelli d'Italia, soprattutto nelle Marche, ma anche in Puglia. Forza Italia si riduce un pò dappertutto. Per Celotto il vero vincitore delle elezioni è il Pd che mantiene la Puglia, la Toscana e stravince con De Luca in Campania. Il M5S, come da tradizione, soffre a livello locale ma questa volta accentua la caduta, sparendo de facto in Veneto, dove i voti di fatto eguagliano quelli delle regionali del 2010, quando si presentò per la prima volta. In Veneto di contro non vince la Lega, che si ferma ad un modesto 15% circa, ma il governatore uscente Zaia che triplica con la sua lista i voti del suo partito arrivando ad oltre il 45%.

Ne deriva che «il voto regionale ovviamente rinforza il governo che diventa sempre di più a trazione piddina con i grillini che faranno di tutto per non andare al voto prima della scadenza naturale ovvero marzo 2023». Celotto poi aggiunge che «questo governo resisterà fino ad allora se pensiamo che ci sono de gestire dei dossier pesanti come la nuova legge elettorale, che dovrà ovviamente tenere conto del ridotto numero di parlamentari ridisegnando i collegi, e soprattutto i soldi provenienti dal Recovery fund pari a 209 miliardi di euro». Si tratta di tanti soldi «che spero non si tramuteranno nelle solite mance a pioggia in chiave elettorale», ma in tal senso l'ex attivista dei Cinque stelle di si dice poco fiducioso.

Se la situazione economica si aggraverà sensibilmente e magari si prospetterà una patrimoniale il Pd potrebbe pensare di lasciare spazio ad un esecutivo tecnico a guida Draghi o Cottarelli?
«Potrebbe darsi, ma non credo che ciò accadrà. Vedo però che attorno all'ex governatore della banca d'Italia Mario Draghi e attorno all'economista Carlo Cottarelli stanno prendendo corpo diverse manovre: magari qualcosa potrebbe bollire in pentola per quello che potrebbe accadere una volta scaduta la legislatura». 

Gettando lo sguardo verso ciascun partito come può essere interpretato il voto in proiezione delle politiche?
«Il Pd esce sicuramente rafforzato mentre la Lega continua a perdere consensi rispetto alle Europee 2019. Il progetto di partito nazionale del leader del Carroccio Matteo Salvini sta dimostrando seri limiti e anche al Nord hanno vinto le liste dei governatori più che quelle della Lega. Lo stesso Salvini con l'arrivo Covid e dopo aver fatto cadere il governo scommettendo in maniera azzardata sulle elezioni anticipate ha perso senz'altro spinta. Parlare di barconi e migranti non paga più e la sua strategia politica si sta dimostrando sbagliata. La Lega sta cercando di avvicinarsi a posizioni europeiste e in questo vedo l'emergere di figure politicamente più rassicuranti per l'establishment come quella dell'ex sottosegretario alla presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti e come quella del governatoe leghista del Veneto Luca Zaia che comincia ad avere un certo appeal, per me non meritato, in diversi ambienti della intellighenzia di centrosinistra».

Col voto regionale il Pd allontana da sé stesso ipotesi di congresso?
«Sì».

E perché?
«Perché si rafforza il peso del segretario Nicola Zingaretti. In ogni caso se il segretario e il suo partito non sapranno gestire efficacemente il dossier recovery fund credo che il democratici pagheranno un certo prezzo. Per ora però comunque vedo un inverno e primavera di stabilità in casa piddina».

E in casa di Fdi che c osa succede?
«Fdi sta incalzando non solo il M5S ma pure la Lega. Il segretario di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni esce rafforzata dal voto e potrebbe seriamente insidiare la leadership della destra ad un appannato Salvini, anche perchè non ha il problema delle spinte autonomiste che provengono da certe regioni del Nord, Veneto in testa. In questo la Meloni è avvantaggiata dal fatto che il M5S ha ormai perso qualsiasi spinta riformistica e si limita a gestire il potere. Motivo per cui gli scontenti, soprattutto quelli che non hanno un retrotorra ecologista potranno facilmente confluire in una protesta di destra che la Meloni ha già cominciato a intercettare in mille modi».

Sul piano organizzativo che cosa succede in seno al M5S?
«Nei territori da anni ormai non esiste più una rete di attivismo che pure era stata abbozzata a partire dal 2012-2013. Il movimento ha deciso consapevolmente di smantellare la rete dei meetup e di prescindere dagli attivisti. I pochi rimasti sono in gran parte fanatici di scarso livello intellettuale e senza alcuna competenza o capacità propositiva. Ormai è un partito accentrato e gestito come anzi, peggio, di un partito tradizionale, da una segreteria politica occulta».

Ovvero?
«Si tratta di un gruppo di persone non ha ovviamente alcun interesse di andare al voto perchè sa benissimo che perderebbero prebende e careghe. Per cui arriverà a qualsiasi compromesso pur di mantenere il potere e il governo, cedendo a qualsiasi ricatto del Pd, che, ricordo, in Italia è il vero erede della Dc. Si tratta del partito depositario del vero potere politico. Alla fine che si faccia una legge elettorale maggioritaria o proporzionale M5S non raccoglierà più del 10-15% dei voti e diventerà di fatto una gamba del Pd. Credo che alla fine verrà approvata una legge elettorale maggioritaria che farà comodo pure al Pd e con essa M5S verrà completamente riassorbito nel sistema».

Il M5S potrebbe fare la fine dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro?
«Credo proprio di sì. Quello del M5S, quello cui anche io aderii, si presentava come un grande progetto, almeno sulla carta».

E poi?
«Si è trattato però di un progetto gestito male e nato probabilmente per fini che avevano poco a che fare con quello cui tutti all'inizio ingenuamente pensavamo».  

Il Veneto ha distillato due casi. Uno Zaia ormai doge assoluto e un M5S che da cinque consiglieri se va bene ne farà uno. Per quale motivo?
«Zaia ha saputo intercettare il sentiment del veneto medio: è stato mediaticamente efficace e il sistema dei media regionali gli ha dato una spazio inimmaginabile e senza contraddittorio vero. Il presidente della giunta regionale poi ha abilmente usato il Covid-19 a suo vantaggio, come è capitato al governatore democratico della Campania Vicenzo De Luca tanto per fare un esempio. Così Zaia è apparso per i più distratti, che sono una pletora, come quello che ha applicato una delle migliori strategie per contenere la pandemia. I fatti di questi giorni e le denunce del prestigioso virologo dell'Univrsità di Padova Andrea Crisanti dimostrano che non è proprio tutto vero anzi. La vicenda della mancata implementazione della app Immuni non attivata dalla regione Veneto dimostra che la azione della giunta Zaia non è stata poi così efficace ma, si sa, il popolo pensa molte volte con la panza e meno con la testa».

Vale a dire?
«Vale a dire  Zaia è molto abile a smuovere la panza e sa parlare ai veneti comunicando loro un mantra apprezzatissimo. Con me potete continuare a fare ciò che avete sempre fatto, ossia gli affari vostri. Eppure Zaia è attaccabilissimo».

Per esempio?
«Pensiamo allo scandalo del Mose che ad oggi non è ancora pienamente funzionante, nonostante i tanti miliardi spesi. Chi volle il Mose e costrui il sistema delle grandi opere è stata, a livello veneto, la giunta dell'ex governatore azzurro Giancarlo Galan di cui il buon Zaia era vice nella giunta del 2005. Per cui il leghista conosceva quei meccanismi o se non li conosceva e non si accorse delle porcate che si stavano facendo era distratto. Colpa molto grave per un governante».

Più in generale?
«In generale la giunta Zaia racconta molte cose che nella realtà non esistono: una sanità eccellente che tale non è, il Covid-19 e le proteste attorno ai project financing sanitari lo dimostrano. Di più, il governatore ama passare per l'alfiere di un Veneto che difende il verde e riduce il consumo del suolo. Il che è una balla dato che il Veneto anche in questi anni ha autorizzato un aumento del consumo risultando  la seconda regione, dopo la Lombardia, in tale ambito con una soglia vicina ormai al 50% di suolo cementificato in pianura. E potrei continuare ore se volessi».

E al M5S nel Veneto che cosa è capitato?
«È sparito. Semplicemente perché si è appiattito prestissimo sulle posizioni della Lega dimenticandosi che nel 2015 aveva avuto dagli elettori il mandato per far saltare il banco rispetto al consociativismo in atto tra centrodestra e centrosinistra. E invece i Cinque stelle hanno proseguito su questa strada, basti pensare alla vergogna della commissione regionale sul caso Pfas».

Hanno portato avanti una opposizone di facciata?
«Mi pare evidente. Si sono comportati come il Pd veneto nel quale, come nel M5S, non mancano le eccezioni, come ci insegna il bravo consigliere dem Andrea Zanoni».

Negli anni nelle mani di quale gruppo dirigente è stato il M5S del Veneto. Si può usare questa espressione?
«Sì si può adoperare. Nel Veneto il gruppo dirigente, chiamiamolo così, del M5S venne accuratamente selezionato dallo scomparso Gianroberto Casaleggio e da Beppe Grillo.Tale gruppo faceva riferimento principalmente a David Borrelli. Ex consigliere comunale a Treviso, ex europarlamentare poi staccatosi dal M5S per questioni di gestione di potere non certo per ragioni ideologiche, tutti abbiamo potuto assistere alla sua ingloriosa parabola. Poi c'era l'ex capogruppo in consiglio regionale Jacopo Berti. E per ultimo ma non da ultimo l'oggi ministro ai raporti con il parlamento il bellunese  Federico D'Incà: un uomo con tutti i tratti politici della furbizia dorotea. Questi personaggi hanno badato solo ai loro interessi e a quelli dei gruppi che rappresentavano ma, di fatto, consapevolmente o meno, hanno distrutto la identità del movimento».

In che modo?
«Molte battaglie identitarie sono state lasciate cadere e mai in regione si sono fatti fortemente sentire per battersi contro le politiche della giunta Zaia: basti pensare alla battaglia contro le grandi opere che avevamo iniziato con il gruppo da me fondato già nel 2013. Non cito nemmeno quanto è stato fatto, anzi non è stato fatto a livello regionale e nazionale, dove il M5S è nella maggioranza alle camere, in tema di Superstrada pedemontana veneta. Non dico null'altro non perché non voglia infierire sui miei ex compagni di strada, che lo meriterebbero in primis per la loro inadeguatezza: ma perché non vorrei risultare noioso».

E perciò che è successo alla fine della fiera?
«Senza identità, senza candidati di livello,senza struttura e senza attivisti è ovvio che M5S in Veneto è stato cancellato. Il risultato elettorale è solo la conseguenza delle sciagurate politiche portate avanti da personaggi mediocri il cui ultimo interesse, per incapacità o per opportunismo, è stato quello di promuovere una alternativa non credibile alle politiche della giunta Zaia. Il quale ora potrà dormire sonni tranquilli fino al 2025».

Ma rimanendo al cosiddetto gruppo dirigente del M5S che cosa è successo nel movimento veneto a partire dalle regionali del 2015? Che cosa rappresentarono Borelli e Colomban per la traiettoria dei Cinque stelle?
«Posso dire che il connubio del M5S con Colomban e la sua associazione Confapri, che ha sede nel lussuoso castello di Cison di Valmarino, è stato sin dall'inizio sbagliato. Massimo Colomban, un brillante imprenditore trevigiano, ha usato il M5S per portare avanti le sue idee iperliberiste in forza delle quali pensava di rilanciare il Paese. Il M5S lo ha usato a sua volta per avere entrature importanti nella stanza dei bottoni viste le frequentazioni alto di gamma del Colomban. Non so se Borrelli o altri elementi di spicco, mi fa ridere usare questo termine peraltro, del M5S abbiano ricevuto o meno direttamente dei favori da Confapri. Ma c'è un ma».

Quale ma?
«Certamente non è un buon segnale quando una associazione di imprenditori di alto livello ha tra i soci fondatori il luogotenente di Grillo in Veneto ovvero Borrelli, lo stesso Grillo, Casaleggio senior e l'oggi capo politico ad interim Vito Crimi».

Se ne ricava che?
«Se ne ricava che si può sospettare che Colomban e la Confapri abbiano pesantemente condizionato con il placet di Grillo e Casaleggio, fin dall'inizio, la traiettoria del movimento in Veneto, schiacciandolo fin dagli albori su posizioni filoleghiste. Da qui, come dicevo sopra, la decisione di promuovere alla guida del M5S Veneto personaggi di natura non certo antisistema come Borelli, Berti, D'Incà».

È legittimo avere il sospetto che qualcuno in alto loco abbia voluto colonizzare il M5S per scopi diversi da quelli relativi alla missione politica del movimento?
«Diciamola tutta con franchezza. Fin dalla nascita e lo posso dire perché ci passai direttamente, il movimento in Veneto è stato infiltrato da elementi che poco avevano a che fare con la cultura identitaria dello stesso. Con la chiara complicità di Grillo e Casaleggio. Portandolo alla debacle elettorale e alla sua, di fatto, scomparsa nel 2020».

Facendo un salto a ritroso nel tempo nel M5S di dieci anni si percepiva qualche cosa che in qualche modo faceva riflettere su che cosa sarebbe potuto capitare in futuro?
«Già dai primi mesi di frequentazione del M5S, era l'autunno del 2010, ebbi la netta percezione di come che dentro al M5S esistesse una struttura di comando ben precisa, poco trasparente e soprattutto non visibile all 'esterno».

Ossia?
«La Casaleggio e associati, oggi in aperta rottura con il gruppo parlamentare M5S per questioni sostanzialmente economiche e non  certo ideologiche, ha sempre avuto una struttura dedicata al M5S chiamata orwellianamente lo staff. Del quale non ho mai saputo chi fossero davvero i componenti, né tantomeno come questi prendessero le decisioni. Questa opacissima struttura certificava le liste comunali e gestiva le famose parlamentarie ovvero il processo di selezione dei candidati per le elezioni nazionali il cui esordio fu nel 2013. Orbene io non ho mai saputo in base a quali parametri dessero l'ok a una lista o meno e soprattutto mai sono stati certificati da enti terzi i risultati delle parlamentarie. Più in generale tutta la struttura della Casaleggio a supporto del M5S è sempre stata tenuta a debita distanza dalla base e nota solo ad alcuni attivisti cari a Casaleggio e a Grillo».

Ma come andavano le cose nel M5S nel Veneto di una decina di anni fa?
«In quegli anni nel Veneto la faceva da padrone David Borrelli, informatico, ex pizzaiolo. Il cui unico vero merito è quello di essere stato il primo consigliere comunale d'Italia del M5S nel 2008 eletto a Treviso. Appresso Borrelli venne candidato direttamente su ordine di Grillo alla presidenza della Regione Veneto e risultò non eletto per pochi voti. Da sempre nel M5S Veneto e suppongo pure altrove, è esistita una catena di comando non ufficiale. In Veneto il capo politico è sempre stato Borrelli, nominato poi ufficiale di collegamento con gli industriali, Confapri in testa come detto sopra. Sul territorio esistevano i meetup, i circoli, che in qualche modo erano dipinti come la spina dorsale, la base democratica del movimento».

E di fatto che cosa erano?
«Di fatto erano i capi occulti che gestivano il rapporto con lo Staff nonché con Casaleggio e con Grillo. I personaggi come Borrelli avevano un accesso diretto ai due veri capi della organizzazione ovvero Grillo e Casaleggio. Punto. Quanto accaduto al gruppo grandi opere è eloquente in questo senso».

Come mai?
«Io in seno al M5S regionale creai il gruppo grandi opere uno dei pochi davvero attivi, che elaborò documenti e proposte organizzando varie attività sul territorio. Volevamo dire la nostra, tra le altre, sulla Superstrada pedemontana veneta e su altre mostruosità che la Regione Vento aveva a cuore».

Nell'ambito della vostra attività veniste mai appoggiati da Borrelli?
«No. Mai una volta che Borrelli ci avesse appoggiato o che avesse apprezzato il nostro operato. Io da buon rompiballe entrai in rotta di collisione col M5S già dopo le elezioni politiche del 2013 finendo gradualmente ai margini e infine espulso a settembre 2014».

Con quale stato d'animo avvenne tale separazione?
«Fin da subito mi resi conto che la pattuglia di eletti in parlamento non stava facendo quello per cui era stata eletta e soprattutto che nella stragrande maggioranza dei casi, con il chiaro placet di Grillo e Casaleggio, era stata promossa quella che un brillante, poi espulso, consigliere M5S del veneziano definì la lobby dei mediocri. Una lobby di gente di basso livello culturale anche se laureata, fedele ai capi che magari faceva qualche cosa ad effetto come la pagliacciata di andare su un tetto, ma che poi concretamente non proponeva nulla. E soprattutto non metteva in discussione la totale assenza di democrazia nel movimento. Casaleggio se andiamo a vedere la sua carriera manageriale non certo brillante, ricordo che portò in cattive acque una azienda del gruppo Telecom negli anni '90, da sempre ha promosso e privilegiato gente giovane».

Il che sembra essere una buona cosa. Il ricambio generazionale non è spesso invocato a destra e a manca?
«Certo ma bisogna vedere come si coltiva questa ambizione. Credo che sia più facile plasmare un giovane e influenzarlo che non una persona matura con una sua testa e un suo preciso modo di vedere le cose. In questo senso Casaleggio senior è stato, ahimè in peggio, il vero deus ex machina del M5S: struttura di comando occulta, selezione in base alla fedeltà, processi decisionali opachi, democrazia eterodiretta, manipolazione degli strumenti della supposta democrazia diretta. Dire che nel M5S il motto fosse uno vale uno è sempre stato solo uno slogan buono per accalappiare gli ingenui ma assolutamente non corrispondente al vero. Nel M5S, la cui deriva oggigiorno fa male a chi credette nel progetto, fin dalle origini è esistito un cerchio magico fedele ai due capi. Gli altri non hanno mai contato nulla».

Oggi però il M5S sembra altra cosa. O no?
«Negli anni con la scusa della non struttura, del non statuto, del non partito certi soloni da strapazzo nel buio delle loro stanze, hanno solo promosso una lobby di mediocri funzionali ai loro interessi. O a quelli di coloro che hanno ideato la nascita di questo strano giocattolo che si autodefiniva democratico. Mai c'è stata la volontà reale di promuovere una diversa cultura, di fare del M5S una organizzazione rivoluzionaria nel senso alto del termine».

E alla fine?
«Alla fine mi sono fatto l'idea che il M5S nacque proprio con lo scopo ben preciso, dettato forse da certi ambienti americani, di incanalare su un terreno pacifico il malcontento popolare. Costoro ci sono riusciti molto bene: con il risultato però di trasformare M5S in uno zombie destinato alla estinzione. Ambienti, non solo americani per vero sia chiaro, che manovrano quando possono un bel pezzo dell'arco costituzionale e non. Siamo pur sempre un Paese che ha perso, e male, la Seconda guerra mondiale».

Sì, però il M5S non viene accusato di essere troppo bonario con la Cina?
«Appunto, per per quello ho detto non solo americani. Noi italiani abbiamo questa capacità di servire più padroni che sembra accompagnarci da secoli. Un tempo non si diceva che sia Franza che sia Spagna basta che se magna?».

Marco Milioni