Si può tranquillamente affermare che l’attuale classe politica ha lo stesso indice di gradimento di quella che ha popolato «tangentopoli» negli anni tra il ’92 ed il ’94. Lo si può affermare con la sicurezza di chi parla con la gente comune, quella che lavora e protesta a bassa voce, che tiene in piedi il Paese, che subisce le angherie dei cosiddetti potenti perché non ha santi in paradiso. Si tratta di gente invisibile, ma questo popolo esiste. E critica indistintamente tutta la classe politica, di destra, centro e sinistra. Le ragioni che hanno portato a questo stato di cose sono diverse. Molte delle quali note. Ma vorrei ragionare attorno ad una questione differente seppur intimamente collegata a quella appena menzionata.
Il problema che mi preme affrontare è quello determinato dal rapporto di forza tra l’elettore e l’eletto. La classe (casta?) degli eletti nel nostro Paese è in una posizione di forza aberrante sul piano democratico. Oggi, infatti, una grossa fetta di elettori vota non per convinzione, ma per paura che vincano... gli altri. Se la posizione del cittadino fosse di critica nei confronti di una parte politica l’ovvio consiglio sarebbe di partecipare e favorire la parte avversa. Ma, in questo momento, il problema è completamente diverso. È l’intera classe politica che gode della sfiducia della gente. Ora è evidente che occorre trovare un sistema per portare all’eliminazione, non fisica ovviamente, di quell'establishment che nella sua interezza gode della sfiducia della maggioranza del popolo. Altrimenti le difficoltà che attraversa il Paese sono destinate ad acuirsi. Allo stato ciò sarebbe possibile solo con l’uso della forza.
Questo strumento, assai efficace, sembra profondamente in contrasto con un sistema democratico che deve, in ogni caso, passare attraverso la decisione popolare. È vero che anche l’insurrezione di un popolo è elemento democratico, ma ha un senso solo laddove non vi sia una democrazia. In un sistema democratico la soluzione, e cioè l’eliminazione di una classe politica invisa, deve comunque avvenire con un metodo fondato sulla volontà non violenta dei cittadini.
Purtroppo alla domanda se il nostro sistema consenta l’eliminazione democratica della intera classe politica, dobbiamo rispondere negativamente. Così, assai sinteticamente, per ora, si potrebbe proporre una soluzione che tenda comunque ad un ricambio profondo delle elite di governo. A qualsiasi livello, locale come nazionale. In tal senso si può prospettare una soluzione normativa di doppio grado, una con una legge ordinaria, l’altra con modifica della norma costituzionale. Certamente non si vuole entrare nel merito della legge elettorale e del sistema che verrà prescelto.
Qualsiasi sia la legge elettorale si deve, per rispetto dell’elettore, fornirgli uno strumento democratico che gli consenta di sostituire tutti i suoi rappresentanti. Né gli si può Si può tranquillamente affermare che l’attuale classe politica ha lo stesso indice di gradimento di quella che ha popolato «tangentopoli» negli anni tra il ’92 ed il ’94. Lo si può affermare con la sicurezza di chi parla con la gente comune, quella che lavora e protesta a bassa voce, che tiene in piedi il Paese, che subisce le angherie dei cosiddetti potenti perché non ha santi in paradiso. Si tratta di gente invisibile, ma questo popolo esiste. E critica indistintamente tutta la classe politica, di destra, centro e sinistra. Le ragioni che hanno portato a questo stato di cose sono diverse. Molte delle quali note. Ma vorrei ragionare attorno ad una questione differente seppur intimamente collegata a quella appena menzionata.
Il problema che mi preme affrontare è quello determinato dal rapporto di forza tra l’elettore e l’eletto. La classe (casta?) degli eletti nel nostro Paese è in una posizione di forza aberrante sul piano democratico. Oggi, infatti, una grossa fetta di elettori vota non per convinzione, ma per paura che vincano... gli altri. Se la posizione del cittadino fosse di critica nei confronti di una parte politica l’ovvio consiglio sarebbe di partecipare e favorire la parte avversa. Ma, in questo momento, il problema è completamente diverso. È l’intera classe politica che gode della sfiducia della gente. Ora è evidente che occorre trovare un sistema per portare all’eliminazione, non fisica ovviamente, di quell'establishment che nella sua interezza gode della sfiducia della maggioranza del popolo. Altrimenti le difficoltà che attraversa il Paese sono destinate ad acuirsi. Allo stato ciò sarebbe possibile solo con l’uso della forza.
Questo strumento, assai efficace, sembra profondamente in contrasto con un sistema democratico che deve, in ogni caso, passare attraverso la decisione popolare. È vero che anche l’insurrezione di un popolo è elemento democratico, ma ha un senso solo laddove non vi sia una democrazia. In un sistema democratico la soluzione, e cioè l’eliminazione di una classe politica invisa, deve comunque avvenire con un metodo fondato sulla volontà non violenta dei cittadini.
Purtroppo alla domanda se il nostro sistema consenta l’eliminazione democratica della intera classe politica, dobbiamo rispondere negativamente. Così, assai sinteticamente, per ora, si potrebbe proporre una soluzione che tenda comunque ad un ricambio profondo delle elite di governo. A qualsiasi livello, locale come nazionale. In tal senso si può prospettare una soluzione normativa di doppio grado, una con una legge ordinaria, l’altra con modifica della norma costituzionale. Certamente non si vuole entrare nel merito della legge elettorale e del sistema che verrà prescelto.
Qualsiasi sia la legge elettorale si deve, per rispetto dell’elettore, fornirgli uno strumento democratico che gli consenta di sostituire tutti i suoi rappresentanti. Né gli si può furbescamente chiedere di entrare nello scontro politico perché tale affermazione sarebbe l’espressione massima dell’imbroglio concettuale. Non si può confondere i due ruoli, elettore ed eletto, e non si può imporre una scelta «binaria» a chi vuole esercitare la sua funzione politica solo nel ruolo di elettore. Indipendentemente dal tipo di elezione, nazionale, regionale, provinciale comunale o circoscrizionale che sia, la norma che potremmo definire «ghigliottina» deve calare su qualsivoglia manifestazione pubblica espressiva della volontà popolare al di là della sua dimensione. Ma come si dovrebbe intervenire nel dettaglio? Fissando due semplici princìpi con legge ordinaria. Primo, soltanto il raggiungimento della soglia del 50% degli aventi diritto al voto rende valide le elezioni qualsiasi esse siano. Secondo, in caso di elezioni invalide entro 90 giorni si procede a nuove elezioni e così via fino a che le elezioni non abbiano raggiunto il quorum del 50% degli aventi diritto al voto.
Ovvio appare che sino a quel momento restino in carica coloro che erano stati precedentemente eletti. Si potrebbe obiettare che in tal modo potremmo trovarci a votare più volte le stesse persone e, che potremmo dare il via ad una processione senza fine tra gli stessi con conseguenze anche sul sistema democratico. Ebbene la cosa risulta evidente, ed infatti non a caso ho parlato anche di una piccola riforma costituzionale da inserire proprio in questo contesto. Tale riforma prevederebbe infatti che chiunque avesse partecipato ad una tornata elettorale conclusasi con la sfiducia rappresentata dal mancato raggiungimento della quota 50% degli aventi diritto, non possa più, e sottolineo mai più, partecipare ad altre tornate elettorali di qualsiasi tipo.
Chi è stato sfiduciato non può, ed è il minimo della serietà, più ripresentarsi. Non saremmo, infatti, di fronte ad una sfiducia determinata da una sconfitta che rappresenta l’altra faccia della vittoria dell’avversario, e quindi sarebbe, comunque, una fiducia sulla classe politica nella sua interezza, ma saremmo, nel caso prospettato, nell’ambito di una sfiducia collettiva, generale le cui conseguenze non potrebbero che, democraticamente, essere l’allontanamento definitivo dalla guida, a qualsiasi livello, dalla “res publica”.
Certo, per chi della vita politica ha fatto una professione, oppure per chi comunque affronta la vita politica come mezzo per favorire le proprie fortune, tale proposta apparirà come una bestemmia da combattere. Dirà che negli Stati Uniti votano anche meno della metà degli aventi diritto al voto. Ebbene chi la pensa così prenda la nave o l’aereo e vada a vivere negli Stati Uniti. Prima di partire gli insegneremo anche, perché la tradizione americana sia fondata sulla cosiddetta delega da ormai duecento anni. Se vogliono risparmiarsi qualunque appellativo virulento evitino di fare obiezioni cretine.
Concludo, per ora, rilevando che con la proposta appena illustrata si darebbe la possibilità a quei cittadini, che votano solo perché non vincano gli altri, di rendere più produttivo il loro voto. Aggiungo inoltre che comunque un popolo al quale sia data la democratica possibilità di cambiare tutta la sua classe dirigente e non lo fa, è un popolo che non ha il diritto di esprimere alcuna lamentela. Né gli si può furbescamente chiedere di entrare nello scontro politico perché tale affermazione sarebbe l’espressione massima dell’imbroglio concettuale. Non si può confondere i due ruoli, elettore ed eletto, e non si può imporre una scelta «binaria» a chi vuole esercitare la sua funzione politica solo nel ruolo di elettore. Indipendentemente dal tipo di elezione, nazionale, regionale, provinciale comunale o circoscrizionale che sia, la norma che potremmo definire «ghigliottina» deve calare su qualsivoglia manifestazione pubblica espressiva della volontà popolare al di là della sua dimensione. Ma come si dovrebbe intervenire nel dettaglio? Fissando due semplici princìpi con legge ordinaria. Primo, soltanto il raggiungimento della soglia del 50% degli aventi diritto al voto rende valide le elezioni qualsiasi esse siano. Secondo, in caso di elezioni invalide entro 90 giorni si procede a nuove elezioni e così via fino a che le elezioni non abbiano raggiunto il quorum del 50% degli aventi diritto al voto.
Ovvio appare che sino a quel momento restino in carica coloro che erano stati precedentemente eletti. Si potrebbe obiettare che in tal modo potremmo trovarci a votare più volte le stesse persone e, che potremmo dare il via ad una processione senza fine tra gli stessi con conseguenze anche sul sistema democratico. Ebbene la cosa risulta evidente, ed infatti non a caso ho parlato anche di una piccola riforma costituzionale da inserire proprio in questo contesto. Tale riforma prevederebbe infatti che chiunque avesse partecipato ad una tornata elettorale conclusasi con la sfiducia rappresentata dal mancato raggiungimento della quota 50% degli aventi diritto, non possa più, e sottolineo mai più, partecipare ad altre tornate elettorali di qualsiasi tipo.
Chi è stato sfiduciato non può, ed è il minimo della serietà, più ripresentarsi. Non saremmo, infatti, di fronte ad una sfiducia determinata da una sconfitta che rappresenta l’altra faccia della vittoria dell’avversario, e quindi sarebbe, comunque, una fiducia sulla classe politica nella sua interezza, ma saremmo, nel caso prospettato, nell’ambito di una sfiducia collettiva, generale le cui conseguenze non potrebbero che, democraticamente, essere l’allontanamento definitivo dalla guida, a qualsiasi livello, dalla “res publica”.
Certo, per chi della vita politica ha fatto una professione, oppure per chi comunque affronta la vita politica come mezzo per favorire le proprie fortune, tale proposta apparirà come una bestemmia da combattere. Dirà che negli Stati Uniti votano anche meno della metà degli aventi diritto al voto. Ebbene chi la pensa così prenda la nave o l’aereo e vada a vivere negli Stati Uniti. Prima di partire gli insegneremo anche, perché la tradizione americana sia fondata sulla cosiddetta delega da ormai duecento anni. Se vogliono risparmiarsi qualunque appellativo virulento evitino di fare obiezioni cretine.
Concludo, per ora, rilevando che con la proposta appena illustrata si darebbe la possibilità a quei cittadini, che votano solo perché non vincano gli altri, di rendere più produttivo il loro voto. Aggiungo inoltre che comunque un popolo al quale sia data la democratica possibilità di cambiare tutta la sua classe dirigente e non lo fa, è un popolo che non ha il diritto di esprimere alcuna lamentela.
Renato Ellero
www.lasberla.net del 17 marzo 2010
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Supporto01 è una piccola piattaforma di supporto anche per il mio blog principale (https://marcomilioni.blogspot.com) sul quale trovate ogni informazione di contatto...
mercoledì 17 marzo 2010
domenica 7 marzo 2010
Il decreto golpe visto da Giulietto Chiesa
Visto che molte persone, in buona fede, non capiscono il perché di tanta indignazione verso un decreto che (a loro parere) avrebbe solo garantito pluralità e democrazia, provo a fare il punto sui molti aspetti inaccettabili.
01. La legge è uguale per tutti. Da oggi non è più così, perché il Governo ha stabilito che se un rappresentante politico non rispetta le regole e la burocrazia, può farsi le leggi a suo piacimento per sistemare le cose. Questo è un pessimo esempio per i milioni di cittadini che quotidianamente si scontrano con le regole e la burocrazia, essenziali in una democrazia che si dica tale.
02. La legge è uguale per tutti. Anche ammettendo la necessità di dover sanare questa situazione delle liste, il decreto non lo fa: il decreto interviene solo per sanare la situazione del PDL nel Lazio e di Formigoni in Lombardia. Ci sono molte altre liste escluse in tutta Italia, con problemi simili: per loro non si fa niente. I Radicali avevano denunciato da tempo l'assurdità della normativa per la raccolta firme, ricevendo battutine ed alzate di spalle da parte della stessa Polverini che aveva ironizzato sullo sciopero della fame della Bonino. In Calabria, il Partito Comunista dei Lavoratori sostiene di essere stato escluso dopo aver rispettato la normativa pubblicata sul sito della Regione Calabria: il motivo è che quel sito non era stato aggiornato con le ultime disposizioni, che la Regione stessa aveva cambiato pochi giorni prima.
03. Questo decreto, per varie ragioni, causerà molti dubbi di costituzionalità. Il risultato è che (se nel frattempo non fanno pure un decreto per sopprimere la Corte Costituzionale), ci sono forti probabilità che le elezioni vengano invalidate in seguito a qualche ricorso, indipendentemente da chi le vincerà. Inoltre, se il decreto non verrà convertito in legge dal Parlamento tra 60gg, il caos legislativo sarà enorme. Ci troviamo di fronte al paradosso che, qualora Penati e la Bonino dovessero vincere le elezioni, la maggioranza in Parlamento potrebbe decidere di far decadere il decreto, invalidando le elezioni dopo averle perse.
04. Non è vero che per i cittadini non ci sarebbe stata pluralità. Nel Lazio, il centrodestra poteva votare per la Polverini, attraverso una delle liste a lei collegate, come ad esempio la "Lista Renata Polverini Presidente". In Lombardia, oltre a Rifondazione e il Movimento a 5 Stelle, c'era l'UDC che candidava Pezzotta. Il motivo per cui Formigoni non poteva mollare non è la necessità di dare un'alternativa ai cittadini, ma è unicamente legato alla potenza economico/politica di Comunione e Liberazione. E francamente, che dobbiamo metterci a piangere per l'assenza della Lega, un partito razzista di estrema destra, che peraltro con la bandiera italiana ci si pulirebbe il culo, mi sembra del tutto ridicolo. Dovremmo piangere del fatto che questo partito non sia stato ancora bandito per incostituzionalità reiterata, e invece ce lo ritroviamo al governo.
05. Anche ammessa la necessità di dover "fare qualcosa" per il centrodestra, ci sarebbe stato modo e modo. Innanzitutto, andava aspettato l'esito del ricorso, senza forzare la mano attraverso un decreto che di fatto cambia la legislazione vigente (il decreto interpretativo è una roba che semplicemente non esiste). In secondo luogo, secondo la legge 400/1988, non può essere il Governo a legiferare sulle norme elettorali, ma deve essere il Parlamento. Poi, che si possa legiferare in maniera retroattiva è una cosa che mi sembra di per sé assurda, ma non entro nel merito perché non sono un giurista. Berlusconi è stato costretto a lavorare in sede di Consiglio dei Ministri perché, pur con tutto il margine di cui dispone la destra, avrebbe avuto difficoltà a convincere la maggioranza dei parlamentari ad approvare una legge del genere.
06. Il ruolo dell'opposizione: sia il PD sia l'IDV, sia l'UDC hanno sostenuto, giustamente, la necessità di aspettare l'esito del TAR per capire quale fosse esattamente la situazione legale, e inoltre hanno chiesto che il PDL si assumesse la responsabilità di quanto accaduto, riconoscendo l'errore. Pensate che a Padova, sono state trovate 4 firme del PDL di persone morte (e quindi palesemente false)! In tutta risposta, a parte i rituali insulti ai giudici comunisti, c'è stata la dichiarazione di La Russa che ha detto: "non rispondiamo delle nostre azioni, siamo pronti a tutto perché non accetteremo un verdetto negativo". Se questo non è un regime, fate voi.
07. Venendo a Napolitano, è inaccettabile il suo comportamento per molte ragioni. Innanzitutto, i dubbi di costituzionalità sono evidenti. In secondo luogo, non c'era nessuna urgenza di firmarlo a mezzanotte tra venerdì e sabato notte. La fretta di Berlusconi era dovuta alla necessità di far pressione sul TAR che si sarebbe espresso oggi in Lombardia. E' inaccettabile che Napolitano si sia prestato a questo giochino, andando a interferire in anticipo sulla decisione del TAR stesso.
08. Non è la prima volta che Napolitano delude in quanto a difesa delle istituzioni democratiche. Venendo agli avvenimenti più recenti, non ha detto nulla sull'oscuramento della campagna elettorale (non c'è una tribuna politica in tv manco per sbaglio). Non dice mai una parola per difendere i giudici, insultati quotidianamente dai rappresentanti della Destra; e Napolitano è il presidente del CSM. Non ha detto nulla contro le gravissime affermazioni di La Russa l'altro giorno. L'altro ieri Napolitano aveva detto: "voglio il consenso dell'opposizione" e ieri ha firmato senza che questo consenso ci fosse. Pertanto, non voglio entrare nel merito della decisione di Bersani di non volerlo tirare in ballo, ma mi sembra assurdo che ci si scandalizzi contro Di Pietro che ha invocato la possibilità di pensare all'impeachment, una procedura prevista dal nostro ordinamento. Magari è tatticamente sbagliata, magari non se ne farà niente, ma sentire D'Alema e La Torre (quello del pizzino con Bocchino) sbraitare contro Di Pietro, cercando per l'ennesima volta di spaccare un'opposizione che per una volta si mostra compatta, è francamente disgustoso. E disgustoso è pure Fini, che si mostra per l'ennesima volta di essere un ignavo dedito solo ai propri interessi.
Speriamo che questo moto di indignazione porti a un vero ricompattamento tra i cittadini e tutte le forze politiche di opposizione, affinché questo regime di pulcinella venga mandato a casa con una sonora sconfitta alle prossime Regionali. Faccio un appello: ANDIAMO TUTTI A VOTARE. Scegliete voi il partito all'opposizione (parlamentare o extraparlamentare) che vi piace di più, ma mandiamoli a casa.
Giulietto Chiesa
da: www.facebook.com del 6 marzo 2010
01. La legge è uguale per tutti. Da oggi non è più così, perché il Governo ha stabilito che se un rappresentante politico non rispetta le regole e la burocrazia, può farsi le leggi a suo piacimento per sistemare le cose. Questo è un pessimo esempio per i milioni di cittadini che quotidianamente si scontrano con le regole e la burocrazia, essenziali in una democrazia che si dica tale.
02. La legge è uguale per tutti. Anche ammettendo la necessità di dover sanare questa situazione delle liste, il decreto non lo fa: il decreto interviene solo per sanare la situazione del PDL nel Lazio e di Formigoni in Lombardia. Ci sono molte altre liste escluse in tutta Italia, con problemi simili: per loro non si fa niente. I Radicali avevano denunciato da tempo l'assurdità della normativa per la raccolta firme, ricevendo battutine ed alzate di spalle da parte della stessa Polverini che aveva ironizzato sullo sciopero della fame della Bonino. In Calabria, il Partito Comunista dei Lavoratori sostiene di essere stato escluso dopo aver rispettato la normativa pubblicata sul sito della Regione Calabria: il motivo è che quel sito non era stato aggiornato con le ultime disposizioni, che la Regione stessa aveva cambiato pochi giorni prima.
03. Questo decreto, per varie ragioni, causerà molti dubbi di costituzionalità. Il risultato è che (se nel frattempo non fanno pure un decreto per sopprimere la Corte Costituzionale), ci sono forti probabilità che le elezioni vengano invalidate in seguito a qualche ricorso, indipendentemente da chi le vincerà. Inoltre, se il decreto non verrà convertito in legge dal Parlamento tra 60gg, il caos legislativo sarà enorme. Ci troviamo di fronte al paradosso che, qualora Penati e la Bonino dovessero vincere le elezioni, la maggioranza in Parlamento potrebbe decidere di far decadere il decreto, invalidando le elezioni dopo averle perse.
04. Non è vero che per i cittadini non ci sarebbe stata pluralità. Nel Lazio, il centrodestra poteva votare per la Polverini, attraverso una delle liste a lei collegate, come ad esempio la "Lista Renata Polverini Presidente". In Lombardia, oltre a Rifondazione e il Movimento a 5 Stelle, c'era l'UDC che candidava Pezzotta. Il motivo per cui Formigoni non poteva mollare non è la necessità di dare un'alternativa ai cittadini, ma è unicamente legato alla potenza economico/politica di Comunione e Liberazione. E francamente, che dobbiamo metterci a piangere per l'assenza della Lega, un partito razzista di estrema destra, che peraltro con la bandiera italiana ci si pulirebbe il culo, mi sembra del tutto ridicolo. Dovremmo piangere del fatto che questo partito non sia stato ancora bandito per incostituzionalità reiterata, e invece ce lo ritroviamo al governo.
05. Anche ammessa la necessità di dover "fare qualcosa" per il centrodestra, ci sarebbe stato modo e modo. Innanzitutto, andava aspettato l'esito del ricorso, senza forzare la mano attraverso un decreto che di fatto cambia la legislazione vigente (il decreto interpretativo è una roba che semplicemente non esiste). In secondo luogo, secondo la legge 400/1988, non può essere il Governo a legiferare sulle norme elettorali, ma deve essere il Parlamento. Poi, che si possa legiferare in maniera retroattiva è una cosa che mi sembra di per sé assurda, ma non entro nel merito perché non sono un giurista. Berlusconi è stato costretto a lavorare in sede di Consiglio dei Ministri perché, pur con tutto il margine di cui dispone la destra, avrebbe avuto difficoltà a convincere la maggioranza dei parlamentari ad approvare una legge del genere.
06. Il ruolo dell'opposizione: sia il PD sia l'IDV, sia l'UDC hanno sostenuto, giustamente, la necessità di aspettare l'esito del TAR per capire quale fosse esattamente la situazione legale, e inoltre hanno chiesto che il PDL si assumesse la responsabilità di quanto accaduto, riconoscendo l'errore. Pensate che a Padova, sono state trovate 4 firme del PDL di persone morte (e quindi palesemente false)! In tutta risposta, a parte i rituali insulti ai giudici comunisti, c'è stata la dichiarazione di La Russa che ha detto: "non rispondiamo delle nostre azioni, siamo pronti a tutto perché non accetteremo un verdetto negativo". Se questo non è un regime, fate voi.
07. Venendo a Napolitano, è inaccettabile il suo comportamento per molte ragioni. Innanzitutto, i dubbi di costituzionalità sono evidenti. In secondo luogo, non c'era nessuna urgenza di firmarlo a mezzanotte tra venerdì e sabato notte. La fretta di Berlusconi era dovuta alla necessità di far pressione sul TAR che si sarebbe espresso oggi in Lombardia. E' inaccettabile che Napolitano si sia prestato a questo giochino, andando a interferire in anticipo sulla decisione del TAR stesso.
08. Non è la prima volta che Napolitano delude in quanto a difesa delle istituzioni democratiche. Venendo agli avvenimenti più recenti, non ha detto nulla sull'oscuramento della campagna elettorale (non c'è una tribuna politica in tv manco per sbaglio). Non dice mai una parola per difendere i giudici, insultati quotidianamente dai rappresentanti della Destra; e Napolitano è il presidente del CSM. Non ha detto nulla contro le gravissime affermazioni di La Russa l'altro giorno. L'altro ieri Napolitano aveva detto: "voglio il consenso dell'opposizione" e ieri ha firmato senza che questo consenso ci fosse. Pertanto, non voglio entrare nel merito della decisione di Bersani di non volerlo tirare in ballo, ma mi sembra assurdo che ci si scandalizzi contro Di Pietro che ha invocato la possibilità di pensare all'impeachment, una procedura prevista dal nostro ordinamento. Magari è tatticamente sbagliata, magari non se ne farà niente, ma sentire D'Alema e La Torre (quello del pizzino con Bocchino) sbraitare contro Di Pietro, cercando per l'ennesima volta di spaccare un'opposizione che per una volta si mostra compatta, è francamente disgustoso. E disgustoso è pure Fini, che si mostra per l'ennesima volta di essere un ignavo dedito solo ai propri interessi.
Speriamo che questo moto di indignazione porti a un vero ricompattamento tra i cittadini e tutte le forze politiche di opposizione, affinché questo regime di pulcinella venga mandato a casa con una sonora sconfitta alle prossime Regionali. Faccio un appello: ANDIAMO TUTTI A VOTARE. Scegliete voi il partito all'opposizione (parlamentare o extraparlamentare) che vi piace di più, ma mandiamoli a casa.
Giulietto Chiesa
da: www.facebook.com del 6 marzo 2010
giovedì 4 marzo 2010
L'ora della paura
Comincio ad avere paura per quello che sta succedendo in queste ore. Nel Paese il governo e le forze di centrodestra che lo sostengono hanno messo a punto una strategia basata sulla violazione e sulla scorretta interpretazione delle norme che regolano la cosiddetta par condicio, legge già bislacca di per sé peraltro. Il risultato è stato quello di far saltare l’unica piazzaforte televisiva con ampia platea di ascolto nella quale si fa un po’ di controcanto a chi ha il potere in mano: sia esso parlamentare, esecutivo e mediatico. I programmi «riserva indiana» cui mi riferisco li conoscono un po’ tutti. E sono tra gli altri “Ballarò”, “Annozero”, forse “Presa diretta”.
E mentre il centrodestra capeggiato dal suo azionista di maggioranza Silvio Berlusconi travolge con la fiction del pluralismo le voci dissenzienti, anche politiche, in nome dello stesso pluralismo, sempre Lega e soprattutto Pdl, cominciano a fare balenare l’idea di una norma, un decreto urgente “ad listam” che permetta ai sodali del capo nel Lazio come in Lombardia, i quali al momento non rispettano i parametri di legge per la presentazione delle firme elettorali, di correre ugualmente alle prossime elezioni regionali. Sulla stampa si leggono già i nomi dei fiancheggiatori di una ipotesi del genere, siano essi notisti del Corsera come Massimo Franco, siano essi parlamentari (d’opposizione?) come il democratico (?) Luciano Violante.
Si tratta di uno stato di cose preoccupante, indicativo di come il quindicennio di Arcore abbia mutato e lacerato nel profondo la fibra degli italiani. Anche dei politici che più dovrebbero essere avvezzi alle manovre ordite nel sottobosco. Per cui arriviamo al paradosso in cui in un confronto tra un tank (Berlusconi coi suoi soldi, le sue tv, le sue liason trasversali) si chiede all’avversario (l’opposizione) armato di schioppo e di una bomba a mano di buttare via la bomba, e anche qualche proiettile, perché i suoi si sono dimenticati di fare gasolio al carro armato. In una guerra del genere, in una guerra impari, il soldatino ringraziando il cielo per l’occasione avuta su un nemico ben più armato dio solo sa come e con quali soldi, metterebbe la sua mina sotto il cingolo e fracasserebbe il blindato. Invece no. I corifei del fairplay alla matriciana (“non cominciare a mangiare fin quando non mi sono mangiato anche la tua porzione”) sono già usciti allo scoperto spiegando che Berlusconi va battuto alle urne e non sul versante delle carte bollate.
Quale è il perché di queste voci? É chiaro a questo punto che la possibile mancata elezione di alcuni candidati di centrodestra metterebbe a rischio equilibri e assetti di potere che in qualche modo si amalgamano anche a gruppi in seno al centrosinistra. Non è un caso che vox populi indichi nella eventuale norma a garanzia della rielezione di Roberto Formigoni (Pdl) in Lombardia (oggi impossibile perché in terzo mandato non sarebbe legittimo) il presupposto per uno scambio alla pari con Vasco Errani (Pd) in Emilia, sul cui capo pendono le stesse incognite di Formigoni.
Ma la questione di base è un’ altra. Quelle leggi la cui umiliazione a mezzo decreto viene invocata da destra come bisbigliata a sinistra, non sono regole che riguardano una partita tra lorsignori. Sono regole che garantiscono in primis il cittadino terzo; il quale proprio grazie a quelle procedure dovrebbe avere la certezza che le elezioni si svolgano secondo i dettami della stato di diritto. Ovvero quella condizione irrinunciabile e suprema, se dobbiamo dare credito alla democrazia costituzionale, per la quale tutti indistintamente, lo Stato per primo, sono soggetti alle leggi.
Per questo ho paura. Ho paura che il premier abbia capito benissimo che una parte non so quanto ampia dei suoi oppositori è molto attaccata a determinate rendite di posizione. E lo è così tanto che ogni volta che il capo del governo fa capire che potrebbe tirare fuori uno scheletro dall’armadio o chiudere un rubinetto, pezzi della minoranza arretrano. Anche quelle poche volte in cui potrebbero dare la zampata politicamente vincente. Dal 1994 va avanti così. C’è però un problema. Ad ogni nuovo strattone il Caimano si prende un pezzo in più della coperta. Al prossimo strattone potremmo rimanere tutti senza. E allora sarà il tempo delle barricate. Sempre che ci sarà ancora tempo. Ecco queste sono le ragioni per cui bisogna dire non a qualsiasi leggina “salva pasticcio”. Se Pd, IdV, o chiunque altro sino ad arrivare al capo dello Stato (che non può firmare la porcata regionale) arretrerà solo un centimetro sarà la storia a iscrivere lorsignori sul registro degli indagati e dei colpevoli. Persino prima del nome di B.
Marco Milioni
da http://marcomilioni.blogspot.com
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E mentre il centrodestra capeggiato dal suo azionista di maggioranza Silvio Berlusconi travolge con la fiction del pluralismo le voci dissenzienti, anche politiche, in nome dello stesso pluralismo, sempre Lega e soprattutto Pdl, cominciano a fare balenare l’idea di una norma, un decreto urgente “ad listam” che permetta ai sodali del capo nel Lazio come in Lombardia, i quali al momento non rispettano i parametri di legge per la presentazione delle firme elettorali, di correre ugualmente alle prossime elezioni regionali. Sulla stampa si leggono già i nomi dei fiancheggiatori di una ipotesi del genere, siano essi notisti del Corsera come Massimo Franco, siano essi parlamentari (d’opposizione?) come il democratico (?) Luciano Violante.
Si tratta di uno stato di cose preoccupante, indicativo di come il quindicennio di Arcore abbia mutato e lacerato nel profondo la fibra degli italiani. Anche dei politici che più dovrebbero essere avvezzi alle manovre ordite nel sottobosco. Per cui arriviamo al paradosso in cui in un confronto tra un tank (Berlusconi coi suoi soldi, le sue tv, le sue liason trasversali) si chiede all’avversario (l’opposizione) armato di schioppo e di una bomba a mano di buttare via la bomba, e anche qualche proiettile, perché i suoi si sono dimenticati di fare gasolio al carro armato. In una guerra del genere, in una guerra impari, il soldatino ringraziando il cielo per l’occasione avuta su un nemico ben più armato dio solo sa come e con quali soldi, metterebbe la sua mina sotto il cingolo e fracasserebbe il blindato. Invece no. I corifei del fairplay alla matriciana (“non cominciare a mangiare fin quando non mi sono mangiato anche la tua porzione”) sono già usciti allo scoperto spiegando che Berlusconi va battuto alle urne e non sul versante delle carte bollate.
Quale è il perché di queste voci? É chiaro a questo punto che la possibile mancata elezione di alcuni candidati di centrodestra metterebbe a rischio equilibri e assetti di potere che in qualche modo si amalgamano anche a gruppi in seno al centrosinistra. Non è un caso che vox populi indichi nella eventuale norma a garanzia della rielezione di Roberto Formigoni (Pdl) in Lombardia (oggi impossibile perché in terzo mandato non sarebbe legittimo) il presupposto per uno scambio alla pari con Vasco Errani (Pd) in Emilia, sul cui capo pendono le stesse incognite di Formigoni.
Ma la questione di base è un’ altra. Quelle leggi la cui umiliazione a mezzo decreto viene invocata da destra come bisbigliata a sinistra, non sono regole che riguardano una partita tra lorsignori. Sono regole che garantiscono in primis il cittadino terzo; il quale proprio grazie a quelle procedure dovrebbe avere la certezza che le elezioni si svolgano secondo i dettami della stato di diritto. Ovvero quella condizione irrinunciabile e suprema, se dobbiamo dare credito alla democrazia costituzionale, per la quale tutti indistintamente, lo Stato per primo, sono soggetti alle leggi.
Per questo ho paura. Ho paura che il premier abbia capito benissimo che una parte non so quanto ampia dei suoi oppositori è molto attaccata a determinate rendite di posizione. E lo è così tanto che ogni volta che il capo del governo fa capire che potrebbe tirare fuori uno scheletro dall’armadio o chiudere un rubinetto, pezzi della minoranza arretrano. Anche quelle poche volte in cui potrebbero dare la zampata politicamente vincente. Dal 1994 va avanti così. C’è però un problema. Ad ogni nuovo strattone il Caimano si prende un pezzo in più della coperta. Al prossimo strattone potremmo rimanere tutti senza. E allora sarà il tempo delle barricate. Sempre che ci sarà ancora tempo. Ecco queste sono le ragioni per cui bisogna dire non a qualsiasi leggina “salva pasticcio”. Se Pd, IdV, o chiunque altro sino ad arrivare al capo dello Stato (che non può firmare la porcata regionale) arretrerà solo un centimetro sarà la storia a iscrivere lorsignori sul registro degli indagati e dei colpevoli. Persino prima del nome di B.
Marco Milioni
da http://marcomilioni.blogspot.com
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Immigrazione: oltre il rifiuto, oltre l'assimilazione
L'immigrazione costituisce uno di quei problemi attorno a cui il confronto e la contesa politica, in Italia come nel resto d'Europa, tendono ad animarsi maggiormente, tanto che sempre più, ultimamente, le stesse competizioni elettorali vengono giocate anche e soprattutto sulle risposte che i diversi partiti sono in grado di offrire in merito a tale questione. Le politiche sull'immigrazione appaiono altresì centrali nel caratterizzare l'azione dei governi, ed i provvedimenti che in tal senso vengono presi scaldano come pochi altri gli animi dell'opinione pubblica, suscitando accesi dibattiti nella società civile come nel mondo dell'informazione.
Prendendo in rassegna le diverse posizioni che solitamente le forze politiche o il mondo culturale di cui esse sono espressione assumono in relazione al problema, è facile accorgersi come esse si riducano, nell'essenziale, a due punti di vista, all'apparenza opposti ma che, ad un'analisi più attenta, risultano in realtà complementari se non addirittura semplici varianti di un'unica visione complessiva del mondo e della società. Da una parte abbiamo l'atteggiamento proprio, tradizionalmente, delle forze di sinistra, secondo cui il fenomeno migratorio va governato attuando politiche di accoglienza che favoriscano sempre più l'integrazione degli immigrati nel nostro tessuto sociale, passando necessariamente attraverso la progressiva condivisione, da parte di questi, delle regole e dei valori fondanti della nostra società; regole e valori che devono essere mediati dalle nostre agenzie educative - scuola innanzi tutto - all'interno delle quali gli immigrati devono essere accolti. Tale processo integrativo favorirà così l'acquisizione da parte dei nuovi venuti della piena cittadinanza all'interno dei paesi di accoglienza e quindi la nascita di una società multietnica, che la sinistra vede non solo come ormai inevitabile, ma finanche auspicabile quale segno del superamento delle barriere e delle contrapposizioni che storicamente hanno diviso i popoli e le culture. Per la stessa ragione la sinistra, lungi dal mettere in discussione il fenomeno della globalizzazione, di cui l'immigrazione è figlia, ne esalta la valenza cosmopolita ed universalista, limitandosi ad auspicare una migliore ridistribuzione della ricchezza. Al di là delle belle parole e degli sbandierati proclami circa la convivenza tra differenti culture ed il rispetto per la diversità, tale visione nasconde in realtà la totale condiscendenza verso lo sradicamento e la cancellazione di ogni autentico pluralismo, dato che l'accettazione dei nostri valori e dei nostri costumi da parte degli immigrati - condizione, questa, vista come imprescindibile per una loro adeguata integrazione - significa eo ipso l'abbandono di quelli di origine e quindi la perdita della propria specifica identità.
In verità, per la sinistra, integrazione finisce per essere sinonimo di "assimilazione", quindi omologazione all'interno dei parametri del mondo occidentale e del pensiero unico in esso dominante. Come si fa infatti a parlare di società multietnica e rispetto per il pluralismo culturale quando si pretende che l'immigrato frequenti le nostre scuole, impari la nostra lingua, faccia propri i nostri costumi ed i nostri valori? È chiaro che nel giro di una o due generazioni un simile immigrato della sua identità originaria conserverà a male pena il ricordo. Al massimo questa si ridurrà a puro folklore, a puro revival buono per animare feste e ricorrenze di calendario, per cui ognuno indossi pure il velo, organizzi serate a base di kebab e danze del ventre - alle quali noi occidentali saremo lieti di partecipare per rompere la monotonia di mangiare sempre la solita pizza e ballare la solita disco-music: l'importante è che tutti adottino il nostro modello familiare, rispettino il nostro codice penale e prestino solenne giuramento sulla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino.
Se questa è l'integrazione che la sinistra auspica, celando dietro i buoni sentimenti di accoglienza e rispetto il più bieco assimilazionismo e la più subdola delle intolleranze, la destra da parte sua sa fare a meno anche di tali sentimenti; anzi, ci tiene a presentarsi senza troppe cerimonie come la campionessa della tolleranza zero e delle porte sbarrate. "A casa nostra non li vogliamo": ecco il motto, semplice quanto efficace, di chi di integrazione ed accoglienza non vuole neanche sentir parlare, erigendosi a difensore dei sacri valori dell'Occidente che gli immigrati, portatori di culture e costumi ad esso estranei, finirebbero per mettere in pericolo. La politica della chiusura delle frontiere e dei respingimenti rappresenta così l'unica risposta possibile al fenomeno migratorio secondo le forze di destra, mentre agli immigrati ormai da tempo presenti nel nostro territorio e quindi difficilmente rimpatriabili non va concesso alcun riconoscimento: niente case, niente scuole, niente strane vesti, niente cibi e balli esotici. Non possono nemmeno costruirsi un tempio per pregare il loro dio in santa pace. Per la destra, semplicemente essi non esistono, devono essere ridotti a fantasmi, a "clandestini" permanenti, al limite lavorare come schiavi a nostro servizio e basta, per non turbare e deturpare con la loro "diversità" il panorama delle nostre città, delle nostre strade, panorama che deve restare omogeneo, uniforme, etnicamente "puro". Riguardo poi alla causa madre del fenomeno migratorio, la globalizzazione capitalista, la destra rappresenta la sua principale e convinta sostenitrice. Come dire: si desiderano le cause, ma non se ne vogliono gli effetti; e questo la dice lunga sulla sua miopia - se non vera e propria dabbenaggine - politica.
Al di là della diversità dei mezzi, il fine della destra "macha" e poco incline alla commozione e quello della sinistra buonista e ben pensante non appaiono così molto differenti: preservare la nostra civiltà, difendere l'amato Occidente faro di progresso, mantenendo alla larga da esso gli immigrati - la destra - o assimilandoveli - la sinistra -, in modo che il dogma "monistico" proprio della modernità che permea in ultima analisi la visione di entrambe e di cui entrambe sono storicamente e culturalmente figlie non venga messo in discussione. In un caso come nell'altro, è la "diversità" il nemico, è l'altro da sé che deve esser combattuto, in nome di un mondo fatto a nostra immagine e somiglianza e dove l'unica libertà ammessa è la libertà concessa a tutti di comportarsi come noi.
Una prospettiva che invece voglia porsi come alternativa al dogma dominante della modernità, e che intenda quindi salvaguardare e valorizzare la varietà delle culture e delle visioni del mondo, deve così collocarsi al di là dell'ottica propria della destra come della sinistra ed offrire ben altre risposte al problema in questione. E non si tratta solo di denunciare la globalizzazione capitalista proponendo modelli economici e sociali alternativi che consentano per quanto è possibile a ciascuna popolazione di vivere dignitosamente nella propria terra natia: bisogna innanzi tutto trovare adeguate risposte ai problemi legati alla presenza ormai radicata di diverse comunità di immigrati nei nostri paesi, senza che queste si risolvano nella loro discriminazione o assimilazione più o meno forzata. Lo stesso intestardirsi su posizioni del tipo "ognuno a casa propria", lungi dall'essere espressione di una visione davvero pluralista del reale come a volte anche alcune forze di destra intendono far credere, risulta spesso essere invece solo una variante dell'orizzonte totalitario che pervade la modernità, di cui il nazionalismo, ovvero il mito della nazione etnicamente "pura", altro non è stato che il preludio. Un autentico pluralismo può dunque essere salvaguardato solo garantendo agli immigrati la possibilità di continuare a vivere, anche lontani dalle loro terre d'origine, secondo i loro costumi e la loro visione del mondo, non ridotti a semplici appendici folcloristiche di modelli di vita nella sostanza completamente occidentalizzati, ma valorizzati quali principi autenticamente e quotidianamente vissuti in base a quanto lo stesso diritto dovrebbe essere chiamato a riconoscere e tutelare. Non la frequenza obbligatoria delle nostre scuole, quindi, ma libera scelta del modello educativo da parte delle famiglie, con possibilità di creare scuole dove si insegni la loro cultura e la loro lingua; non assunzione del nostro diritto familiare, del nostro codice civile e penale, ma possibilità di osservare i loro codici di convivenza e di regolare la loro vita secondo istanze ed istituzioni da essi stessi gestite; non luoghi di culto il cui personale debba essere controllato e selezionato dalle nostre autorità statuali, ma libertà di organizzare il proprio culto secondo i canoni e le modalità decisi dalle comunità dei fedeli medesime in base alle loro specifiche tradizioni.
È chiaro che una simile prospettiva, la sola che consenta veramente di arginare il processo di omologazione altrimenti inarrestabile, implica il superamento, concettuale quanto pratico, dell'universalismo giuridico su cui si regge il cosiddetto "Stato di diritto" moderno, a favore del recupero di modelli che favoriscano una diversa concezione della umana convivenza e del governo del territorio, dove lo stesso Stato non è visto più come il garante di un astratto diritto uguale per tutti, bensì come la suprema istanza chiamata a tutelare l'autorganizzazione di ciascuna comunità, etnica o religiosa che sia, presente sul territorio di sua competenza. Ciò che bisognerebbe riaffermare è un sistema di immunità, di statuti, di privilegi, sulla falsariga di quelli che regolavano la convivenza negli antichi imperi medievali - quello cristiano occidentale come quello ottomano orientale - dove ogni regione, ogni città, ogni particolare comunità etnico-religiosa eventualmente presente all'interno di una città stessa, godevano di uno specifico diritto, che si concretizzava in specifiche istituzioni di autogoverno le quali esentavano quel determinato consesso dal rispettare le norme che valevano a livello più generale.
Nella visione imperiale lo stesso concetto di "cittadinanza" non si identificava necessariamente con quello di "nazionalità", come avviene invece nel moderno stato nazionale, dove la sinistra ha sempre teso ad appiattire la nazionalità sulla cittadinanza, la destra la cittadinanza sulla nazionalità: la comunità "politica" era distinta dalla comunità "etnica", per cui si poteva essere cittadini dell'Impero ma appartenere alla nazione francese, italiana, tedesca, tale distinzione non costituendo alcuna fonte di attrito o conflitto. Seppur a cospetto di una costruzione giuridica - l'Impero - a carattere universalistico, ci troviamo così di fronte non ad un "universale" astratto come quello sul quale si impernia il moderno Stato di diritto, ma ad un universale concreto, ovvero ad un universale come sintesi di particolari, ciascuno dei quali tutelati nella propria specificità. Ancora nelle monarchie nazionali europee della prima età moderna, non solo le diverse comunità, ma addirittura ciascuna classe sociale, ciascun ceto, si autogovernava, e rispondeva a norme e tribunali che valevano soltanto per lei, prima che il centralismo assolutista e poi giacobino spazzasse via tutto ciò in nome dell'astratto universalismo razionalista: non una società intesa quale mera giustapposizione di cittadini-monadi portatori tutti di eguali "diritti naturali" garantiti dalla norma formale, ma come insieme organico di comunità storicamente e culturalmente definite, tutelate dalla persona fisica del re attraverso una rete di patti, contratti, concessioni. Tutt'oggi, nei paesi musulmani non omologati al sistema giuridico occidentale dove il diritto è ancorato alla legge coranica, le "minoranze" etniche o religiose godono di speciali immunità e particolari statuti che permettono loro di autogovernarsi secondo le proprie tradizioni e le proprie regole di convivenza.
Ci sembrano questi i modelli che, di fronte alla sfida rappresentata dal fenomeno migratorio per lo stato nazionale partorito dalla modernità, possono servire oggi da riferimento per le soluzioni più adeguate, in un rinnovato spirito di autentica tolleranza ed accoglienza, contro le obsolete risposte di forze politiche che di quella tradizione statuale sempre più in crisi non costituiscono altro che le ultime e cadenti epigone. Anche in relazione all'immigrazione, come in merito ai tanti altri drammatici problemi che in questa nostra epoca di transizione siamo chiamati ad affrontare, il discrimine non passa più tra destra e sinistra, due facce di una stessa moneta scaduta e ormai fuori corso, ma tra chi quella modernità vuole portare a compimento e chi intende invece superarla in nome di un effettivo pluralismo e di una reale salvaguardia di ogni tradizione e di ogni identità.
Stefano Di Ludovico
da www.giornaledelribelle.com del giorno 11 gennaio 2010
link originario: http://www.giornaledelribelle.com/index.php?option=com_content&task=view&id=681&Itemid=10
Prendendo in rassegna le diverse posizioni che solitamente le forze politiche o il mondo culturale di cui esse sono espressione assumono in relazione al problema, è facile accorgersi come esse si riducano, nell'essenziale, a due punti di vista, all'apparenza opposti ma che, ad un'analisi più attenta, risultano in realtà complementari se non addirittura semplici varianti di un'unica visione complessiva del mondo e della società. Da una parte abbiamo l'atteggiamento proprio, tradizionalmente, delle forze di sinistra, secondo cui il fenomeno migratorio va governato attuando politiche di accoglienza che favoriscano sempre più l'integrazione degli immigrati nel nostro tessuto sociale, passando necessariamente attraverso la progressiva condivisione, da parte di questi, delle regole e dei valori fondanti della nostra società; regole e valori che devono essere mediati dalle nostre agenzie educative - scuola innanzi tutto - all'interno delle quali gli immigrati devono essere accolti. Tale processo integrativo favorirà così l'acquisizione da parte dei nuovi venuti della piena cittadinanza all'interno dei paesi di accoglienza e quindi la nascita di una società multietnica, che la sinistra vede non solo come ormai inevitabile, ma finanche auspicabile quale segno del superamento delle barriere e delle contrapposizioni che storicamente hanno diviso i popoli e le culture. Per la stessa ragione la sinistra, lungi dal mettere in discussione il fenomeno della globalizzazione, di cui l'immigrazione è figlia, ne esalta la valenza cosmopolita ed universalista, limitandosi ad auspicare una migliore ridistribuzione della ricchezza. Al di là delle belle parole e degli sbandierati proclami circa la convivenza tra differenti culture ed il rispetto per la diversità, tale visione nasconde in realtà la totale condiscendenza verso lo sradicamento e la cancellazione di ogni autentico pluralismo, dato che l'accettazione dei nostri valori e dei nostri costumi da parte degli immigrati - condizione, questa, vista come imprescindibile per una loro adeguata integrazione - significa eo ipso l'abbandono di quelli di origine e quindi la perdita della propria specifica identità.
In verità, per la sinistra, integrazione finisce per essere sinonimo di "assimilazione", quindi omologazione all'interno dei parametri del mondo occidentale e del pensiero unico in esso dominante. Come si fa infatti a parlare di società multietnica e rispetto per il pluralismo culturale quando si pretende che l'immigrato frequenti le nostre scuole, impari la nostra lingua, faccia propri i nostri costumi ed i nostri valori? È chiaro che nel giro di una o due generazioni un simile immigrato della sua identità originaria conserverà a male pena il ricordo. Al massimo questa si ridurrà a puro folklore, a puro revival buono per animare feste e ricorrenze di calendario, per cui ognuno indossi pure il velo, organizzi serate a base di kebab e danze del ventre - alle quali noi occidentali saremo lieti di partecipare per rompere la monotonia di mangiare sempre la solita pizza e ballare la solita disco-music: l'importante è che tutti adottino il nostro modello familiare, rispettino il nostro codice penale e prestino solenne giuramento sulla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino.
Se questa è l'integrazione che la sinistra auspica, celando dietro i buoni sentimenti di accoglienza e rispetto il più bieco assimilazionismo e la più subdola delle intolleranze, la destra da parte sua sa fare a meno anche di tali sentimenti; anzi, ci tiene a presentarsi senza troppe cerimonie come la campionessa della tolleranza zero e delle porte sbarrate. "A casa nostra non li vogliamo": ecco il motto, semplice quanto efficace, di chi di integrazione ed accoglienza non vuole neanche sentir parlare, erigendosi a difensore dei sacri valori dell'Occidente che gli immigrati, portatori di culture e costumi ad esso estranei, finirebbero per mettere in pericolo. La politica della chiusura delle frontiere e dei respingimenti rappresenta così l'unica risposta possibile al fenomeno migratorio secondo le forze di destra, mentre agli immigrati ormai da tempo presenti nel nostro territorio e quindi difficilmente rimpatriabili non va concesso alcun riconoscimento: niente case, niente scuole, niente strane vesti, niente cibi e balli esotici. Non possono nemmeno costruirsi un tempio per pregare il loro dio in santa pace. Per la destra, semplicemente essi non esistono, devono essere ridotti a fantasmi, a "clandestini" permanenti, al limite lavorare come schiavi a nostro servizio e basta, per non turbare e deturpare con la loro "diversità" il panorama delle nostre città, delle nostre strade, panorama che deve restare omogeneo, uniforme, etnicamente "puro". Riguardo poi alla causa madre del fenomeno migratorio, la globalizzazione capitalista, la destra rappresenta la sua principale e convinta sostenitrice. Come dire: si desiderano le cause, ma non se ne vogliono gli effetti; e questo la dice lunga sulla sua miopia - se non vera e propria dabbenaggine - politica.
Al di là della diversità dei mezzi, il fine della destra "macha" e poco incline alla commozione e quello della sinistra buonista e ben pensante non appaiono così molto differenti: preservare la nostra civiltà, difendere l'amato Occidente faro di progresso, mantenendo alla larga da esso gli immigrati - la destra - o assimilandoveli - la sinistra -, in modo che il dogma "monistico" proprio della modernità che permea in ultima analisi la visione di entrambe e di cui entrambe sono storicamente e culturalmente figlie non venga messo in discussione. In un caso come nell'altro, è la "diversità" il nemico, è l'altro da sé che deve esser combattuto, in nome di un mondo fatto a nostra immagine e somiglianza e dove l'unica libertà ammessa è la libertà concessa a tutti di comportarsi come noi.
Una prospettiva che invece voglia porsi come alternativa al dogma dominante della modernità, e che intenda quindi salvaguardare e valorizzare la varietà delle culture e delle visioni del mondo, deve così collocarsi al di là dell'ottica propria della destra come della sinistra ed offrire ben altre risposte al problema in questione. E non si tratta solo di denunciare la globalizzazione capitalista proponendo modelli economici e sociali alternativi che consentano per quanto è possibile a ciascuna popolazione di vivere dignitosamente nella propria terra natia: bisogna innanzi tutto trovare adeguate risposte ai problemi legati alla presenza ormai radicata di diverse comunità di immigrati nei nostri paesi, senza che queste si risolvano nella loro discriminazione o assimilazione più o meno forzata. Lo stesso intestardirsi su posizioni del tipo "ognuno a casa propria", lungi dall'essere espressione di una visione davvero pluralista del reale come a volte anche alcune forze di destra intendono far credere, risulta spesso essere invece solo una variante dell'orizzonte totalitario che pervade la modernità, di cui il nazionalismo, ovvero il mito della nazione etnicamente "pura", altro non è stato che il preludio. Un autentico pluralismo può dunque essere salvaguardato solo garantendo agli immigrati la possibilità di continuare a vivere, anche lontani dalle loro terre d'origine, secondo i loro costumi e la loro visione del mondo, non ridotti a semplici appendici folcloristiche di modelli di vita nella sostanza completamente occidentalizzati, ma valorizzati quali principi autenticamente e quotidianamente vissuti in base a quanto lo stesso diritto dovrebbe essere chiamato a riconoscere e tutelare. Non la frequenza obbligatoria delle nostre scuole, quindi, ma libera scelta del modello educativo da parte delle famiglie, con possibilità di creare scuole dove si insegni la loro cultura e la loro lingua; non assunzione del nostro diritto familiare, del nostro codice civile e penale, ma possibilità di osservare i loro codici di convivenza e di regolare la loro vita secondo istanze ed istituzioni da essi stessi gestite; non luoghi di culto il cui personale debba essere controllato e selezionato dalle nostre autorità statuali, ma libertà di organizzare il proprio culto secondo i canoni e le modalità decisi dalle comunità dei fedeli medesime in base alle loro specifiche tradizioni.
È chiaro che una simile prospettiva, la sola che consenta veramente di arginare il processo di omologazione altrimenti inarrestabile, implica il superamento, concettuale quanto pratico, dell'universalismo giuridico su cui si regge il cosiddetto "Stato di diritto" moderno, a favore del recupero di modelli che favoriscano una diversa concezione della umana convivenza e del governo del territorio, dove lo stesso Stato non è visto più come il garante di un astratto diritto uguale per tutti, bensì come la suprema istanza chiamata a tutelare l'autorganizzazione di ciascuna comunità, etnica o religiosa che sia, presente sul territorio di sua competenza. Ciò che bisognerebbe riaffermare è un sistema di immunità, di statuti, di privilegi, sulla falsariga di quelli che regolavano la convivenza negli antichi imperi medievali - quello cristiano occidentale come quello ottomano orientale - dove ogni regione, ogni città, ogni particolare comunità etnico-religiosa eventualmente presente all'interno di una città stessa, godevano di uno specifico diritto, che si concretizzava in specifiche istituzioni di autogoverno le quali esentavano quel determinato consesso dal rispettare le norme che valevano a livello più generale.
Nella visione imperiale lo stesso concetto di "cittadinanza" non si identificava necessariamente con quello di "nazionalità", come avviene invece nel moderno stato nazionale, dove la sinistra ha sempre teso ad appiattire la nazionalità sulla cittadinanza, la destra la cittadinanza sulla nazionalità: la comunità "politica" era distinta dalla comunità "etnica", per cui si poteva essere cittadini dell'Impero ma appartenere alla nazione francese, italiana, tedesca, tale distinzione non costituendo alcuna fonte di attrito o conflitto. Seppur a cospetto di una costruzione giuridica - l'Impero - a carattere universalistico, ci troviamo così di fronte non ad un "universale" astratto come quello sul quale si impernia il moderno Stato di diritto, ma ad un universale concreto, ovvero ad un universale come sintesi di particolari, ciascuno dei quali tutelati nella propria specificità. Ancora nelle monarchie nazionali europee della prima età moderna, non solo le diverse comunità, ma addirittura ciascuna classe sociale, ciascun ceto, si autogovernava, e rispondeva a norme e tribunali che valevano soltanto per lei, prima che il centralismo assolutista e poi giacobino spazzasse via tutto ciò in nome dell'astratto universalismo razionalista: non una società intesa quale mera giustapposizione di cittadini-monadi portatori tutti di eguali "diritti naturali" garantiti dalla norma formale, ma come insieme organico di comunità storicamente e culturalmente definite, tutelate dalla persona fisica del re attraverso una rete di patti, contratti, concessioni. Tutt'oggi, nei paesi musulmani non omologati al sistema giuridico occidentale dove il diritto è ancorato alla legge coranica, le "minoranze" etniche o religiose godono di speciali immunità e particolari statuti che permettono loro di autogovernarsi secondo le proprie tradizioni e le proprie regole di convivenza.
Ci sembrano questi i modelli che, di fronte alla sfida rappresentata dal fenomeno migratorio per lo stato nazionale partorito dalla modernità, possono servire oggi da riferimento per le soluzioni più adeguate, in un rinnovato spirito di autentica tolleranza ed accoglienza, contro le obsolete risposte di forze politiche che di quella tradizione statuale sempre più in crisi non costituiscono altro che le ultime e cadenti epigone. Anche in relazione all'immigrazione, come in merito ai tanti altri drammatici problemi che in questa nostra epoca di transizione siamo chiamati ad affrontare, il discrimine non passa più tra destra e sinistra, due facce di una stessa moneta scaduta e ormai fuori corso, ma tra chi quella modernità vuole portare a compimento e chi intende invece superarla in nome di un effettivo pluralismo e di una reale salvaguardia di ogni tradizione e di ogni identità.
Stefano Di Ludovico
da www.giornaledelribelle.com del giorno 11 gennaio 2010
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giovedì 11 febbraio 2010
Il sistema Arzignano e le coperture occulte
«Quanto è emerso dalle indagini è solo una stortura di questo mondo. L’evasione è il sistema operativo solo di un manipolo di avventurieri. Qui ci sono imprenditori che con impegno hanno costruito, per decenni, il boom della pelle». A parlare così su Il Giornale di Vicenza di oggi è Giorgio Gentilin, sindaco del Pdl di Arzignano, grosso comune dell'ovest Vicentino. Il primo cittadino definisce il maxi scandalo della concia come l'opera di un manipolo di avventurieri; per carità gli spetta il ruolo scomodo di difensore d'ufficio della sua città, ma il capo dell'esecutivo municipale non può tacere scientemente i crudi dati. Le inchieste della magistratura hanno rivelato che ad Arzigano l'illegalità è di casa. Su 500 imprese legate alla concia ben il 30% risultano sotto procedimento penale per reati collegati all'evasione fiscale. Se a questo si aggiungono altri reati, più le procedure amministrative di accertamento erariale si può tranquillamente estrapolare che ad Arzignano, alla meglio, una impresa su due lavora in un ambito di forte opacità rispetto alle leggi.
Di più, un sistema del genere non può tirare a campare per così tanto tempo senza la presenza di coperture istituzionali di altissimo livello. Che molte imprese della concia, e parlo degli ultimi trent'anni, abbiano avuto con le norme (in primis quelle ambientali) un attegiamento discutibile è da anni sulla bocca di tutti, in paese come nel capoluogo. La gestione del ciclo dei reflui del comparto di Trissino Arzignano Chiampo Zermeghedo è entrata nel ciclone dei media e della magistratura diverse volte. Gli inquinanti derivati dalla lavorazione delle pelli e finiti nel canale-fiume Fratta Gorzone in provincia di Verona hanno riempito le pagine delle cronache politiche, talvolta giudiziarie. La mancanza di trasparenza sulle incidenze tumorali nel comprensorio aggrava ulteriormente lo scenario.
Tra le piccole cose che del sistema Arzignano destano curiosità ce n'è una che mi ha lasciato perplesso. Uno dei grandi accusati, il consulente fiscale Marcello Sedda, aveva il suo studio nello stesso stabile della locale agenzia delle entrate. È illuminante in questo senso leggere il brano di un articolo pubblicato da Il Corriere del Veneto il 6 febbraio del 2010: «Sedda, nel corso degli interrogatori secretati dove ha spiegato il ruolo di società estere come Lgl, Gpl, Boissonot e diverse altre dai nomi in codice, finite sotto i riflettori del pm e della Guardia di Finanza di Vicenza con una pesante accusa: riciclaggio di denaro proveniente da delitti tributari. Società usate cioè come salvadanai privati dove far confluire le somme sottratte al fisco, attraverso la fabbrica delle cartiere. Incrociando i suoi interrogatori con quelli di altri indagati e di una decina di imprenditori coinvolti, ne esce un quadro sorprendente: sembra che quasi un intero distretto produttivo fosse complice dell’evasione, coinvolgendo un po' tutti gli uffici finanziari anche se, naturalmente, non tutti i dipendenti, anzi. Poche tasse significa molta liquidità, molta ricchezza. Ristoranti, centri estetici, concessionari di fuoristrada, pure i fioristi registravano crescite a doppia cifra. Sull'evasione è fiorita un’economia legale dell’indotto che ora, un po’ per la crisi, un po' per l’inchiesta, un po’ per le imposte che bisogna pagare, segna il passo...».
Quando Luigi De Magistris, parlamentare europeo dell'IDV, fece visita al presidio No Dal Molin alla fine dell'ottobre 2009, ascoltò in silenzio il mio breve intervento. Intervento nel quale io decisi di mettere in rilievo alcuni collegamenti sconvenienti tra mondo imprenditoriale vicentino, mondo politico, mondo economico, magistratura e istituzioni. De Magistris non ebbe remore a definire il sistema di relazioni da me tratteggiato alle brevi come «borghesia mafiosa». Un sistema nel quale big della politica, delle istituzioni e degli affari possono siglare accordi più o meno taciti protetti da coperture le più varie. In questo quadro tanti denari raccolti illecitamente sono finiti nel mattone creando un altro danno. In momenti di magra come questi infatti una valida risposta alla crisi può venire da un turismo sano che trova la sua collocazione grazie ad un territorio pregiato. Ma se lo stesso territorio, da decenni, viene devastato da operazioni edilizie invasive quando non al limite della legalità quali turisti possiamo attirare? Il sindaco di Arzignano quindi ha poco da minimizzare. Io non so se tra gli atti segretati in queste settimane dalla procura appaiano per la priva volta i nomi dei veri big della concia arzignanese. Si tratta di personaggi influenti, legati a doppio filo col potere locale e a logge più o meno occulte. Fare la difesa d'ufficio di chi potrebbe essere colpito in futuro da un accertamento non è una gran cosa. Va detto inoltre che la precedenti amministrazioni arzignanesi (per anni in quota al centrosinistra) non hanno mai sollevato il problema in modo deciso. Assai più saggio sarebbe quindi interrogarci sulle ragioni profonde che hanno portato un pezzo del Vicentino a questa situazione. Un Vicentino in cui per anni i controlli e la illegalità diffusa sono stati placidamente tollerati dalla stragrande maggioranza delle forze politiche, da molti ambineti sindacali e da un bel pezzo dell'opinione pubblica. E non solo nella concia, basti pensare all'edilizia o alle cave. Ma siamo sicuri che potremo permetterci tutto ciò ancora a lungo?
Marco Milioni
link originario: http://www.lasberla.net/2010/02/il-sistema-arzignano-e-le-coperture-occulte/
Di più, un sistema del genere non può tirare a campare per così tanto tempo senza la presenza di coperture istituzionali di altissimo livello. Che molte imprese della concia, e parlo degli ultimi trent'anni, abbiano avuto con le norme (in primis quelle ambientali) un attegiamento discutibile è da anni sulla bocca di tutti, in paese come nel capoluogo. La gestione del ciclo dei reflui del comparto di Trissino Arzignano Chiampo Zermeghedo è entrata nel ciclone dei media e della magistratura diverse volte. Gli inquinanti derivati dalla lavorazione delle pelli e finiti nel canale-fiume Fratta Gorzone in provincia di Verona hanno riempito le pagine delle cronache politiche, talvolta giudiziarie. La mancanza di trasparenza sulle incidenze tumorali nel comprensorio aggrava ulteriormente lo scenario.
Tra le piccole cose che del sistema Arzignano destano curiosità ce n'è una che mi ha lasciato perplesso. Uno dei grandi accusati, il consulente fiscale Marcello Sedda, aveva il suo studio nello stesso stabile della locale agenzia delle entrate. È illuminante in questo senso leggere il brano di un articolo pubblicato da Il Corriere del Veneto il 6 febbraio del 2010: «Sedda, nel corso degli interrogatori secretati dove ha spiegato il ruolo di società estere come Lgl, Gpl, Boissonot e diverse altre dai nomi in codice, finite sotto i riflettori del pm e della Guardia di Finanza di Vicenza con una pesante accusa: riciclaggio di denaro proveniente da delitti tributari. Società usate cioè come salvadanai privati dove far confluire le somme sottratte al fisco, attraverso la fabbrica delle cartiere. Incrociando i suoi interrogatori con quelli di altri indagati e di una decina di imprenditori coinvolti, ne esce un quadro sorprendente: sembra che quasi un intero distretto produttivo fosse complice dell’evasione, coinvolgendo un po' tutti gli uffici finanziari anche se, naturalmente, non tutti i dipendenti, anzi. Poche tasse significa molta liquidità, molta ricchezza. Ristoranti, centri estetici, concessionari di fuoristrada, pure i fioristi registravano crescite a doppia cifra. Sull'evasione è fiorita un’economia legale dell’indotto che ora, un po’ per la crisi, un po' per l’inchiesta, un po’ per le imposte che bisogna pagare, segna il passo...».
Quando Luigi De Magistris, parlamentare europeo dell'IDV, fece visita al presidio No Dal Molin alla fine dell'ottobre 2009, ascoltò in silenzio il mio breve intervento. Intervento nel quale io decisi di mettere in rilievo alcuni collegamenti sconvenienti tra mondo imprenditoriale vicentino, mondo politico, mondo economico, magistratura e istituzioni. De Magistris non ebbe remore a definire il sistema di relazioni da me tratteggiato alle brevi come «borghesia mafiosa». Un sistema nel quale big della politica, delle istituzioni e degli affari possono siglare accordi più o meno taciti protetti da coperture le più varie. In questo quadro tanti denari raccolti illecitamente sono finiti nel mattone creando un altro danno. In momenti di magra come questi infatti una valida risposta alla crisi può venire da un turismo sano che trova la sua collocazione grazie ad un territorio pregiato. Ma se lo stesso territorio, da decenni, viene devastato da operazioni edilizie invasive quando non al limite della legalità quali turisti possiamo attirare? Il sindaco di Arzignano quindi ha poco da minimizzare. Io non so se tra gli atti segretati in queste settimane dalla procura appaiano per la priva volta i nomi dei veri big della concia arzignanese. Si tratta di personaggi influenti, legati a doppio filo col potere locale e a logge più o meno occulte. Fare la difesa d'ufficio di chi potrebbe essere colpito in futuro da un accertamento non è una gran cosa. Va detto inoltre che la precedenti amministrazioni arzignanesi (per anni in quota al centrosinistra) non hanno mai sollevato il problema in modo deciso. Assai più saggio sarebbe quindi interrogarci sulle ragioni profonde che hanno portato un pezzo del Vicentino a questa situazione. Un Vicentino in cui per anni i controlli e la illegalità diffusa sono stati placidamente tollerati dalla stragrande maggioranza delle forze politiche, da molti ambineti sindacali e da un bel pezzo dell'opinione pubblica. E non solo nella concia, basti pensare all'edilizia o alle cave. Ma siamo sicuri che potremo permetterci tutto ciò ancora a lungo?
Marco Milioni
link originario: http://www.lasberla.net/2010/02/il-sistema-arzignano-e-le-coperture-occulte/
L'Ascom berica contro l'outlet di Grisignano
«È davvero paradossale che il sindaco di Grisignano di Zocco dia il via libera, anche se solo, a quanto pare, come atto d’indirizzo, ad un outlet di 160 mila metri quadri pensando solo ai vantaggi particolari per il suo comune, sempre che ce ne siano, senza avere la benché minima idea dei risvolti di una simile scelta per un intero comprensorio». Il presidente della Confcommercio di Vicenza Sergio Rebecca non usa giri di parole per esprimere il proprio disappunto sulla notizia che il consiglio comunale di Grisignano ha approvato un così detto “atto di indirizzo” per la realizzazione di un outlet, di oltre cento negozi e su una superficie, almeno secondo quanto apparso sulla stampa, di 160mila metri quadri.
Le voci di un progetto in questo senso erano giunte fin dall’agosto scorso all’Ascom, che con due distinte lettere (il 7 agosto, il 16 settembre) aveva chiesto all’amministrazione un incontro per verificare la notizia. Successivamente, il primo ottobre, venuta a conoscenza dell’esame del progetto nel corso del consiglio comunale, l’associazione di via Faccio aveva richiesto di ricevere copia della relativa documentazione. Per tutta risposta il sindaco Mirco Bolis e la sua giunta, invece di aprire un dialogo con gli operatori commerciali dell’area, sono andati dritti per la loro strada senza alcun confronto e senza fornire alcuna spiegazione o informazione. «Non si capisce il perché di tutto questo mistero, anche se personalmente non sono di quelli che amano il proverbio “a pensar male ci si indovina”. Ritengo invece importante sottolineare che questo modo di agire non rispetta un principio guida che dovrebbe ispirare tutta l’azione politico-amministrativa, vale a dire quello della trasparenza. E ciò è ancor più grave se consideriamo che l’impatto di una struttura delle dimensioni e con caratteristiche di cui, ancora, si sente parlare solo per “sentito dire”, sarebbe dirompente sia sulla rete distributiva esistente, sia sulla viabilità e, non ultimo, sul contesto urbano del paese e dei comuni contermini... Leggo - prosegue Rebecca - che in cambio dell’outlet il sindaco Mirco Bolis intende ricevere dalla società costruttrice un bel centro anziani, strade e piste ciclabili. Mi rallegro con i cittadini di Grisignano di Zocco per la lungimiranza del loro primo cittadino, ma mi chiedo se tutto questo basterà per compensare gli ovvi disagi, da un punto di vista ambientale, viabilistico ed in sostanza di qualità della vita, per l’arrivo, si dice, in un paese di 4mila abitanti, di ben un milione di visitatori».
Al di là del problema locale, è chiaro infatti che un outlet come quello prospettato dovrebbe influenzare i comportamenti di acquisto di un numero assai vasto di consumatori, in tutta la provincia e probabilmente anche del Padovano. Sulle conseguenze per il settore commerciale di questa scelta, però, non si ravvisa, nel comportamento del sindaco di Grisignano, la benché minima riflessione: «Ogni pubblico amministratore – conclude il presidente della Confcommercio - dovrebbe basare le proprie decisioni anche su di un forte raccordo con il territorio in cui vive, che non è solo il campanile del proprio comune. Da anni la nostra associazione dialoga con le istituzioni locali ragionando su un concetto basilare per lo sviluppo armonico del nostro territorio, che è l’ottica dell’area vasta. In questo progetto di Grisignano l’unica vastità da me ravvisata è data dall’ambizione di certi amministratori in scadenza di mandato, che vogliono evidentemente congedarsi dai loro concittadini con il “botto” e che invece rischiano, questa volta veramente, di far fare un brutto “botto” ad un intero territorio e ad un intero sistema economico. E ciò alla faccia del confronto costruttivo da tutti sempre virtuosamente invocato. Come Confcommercio provinciale non possiamo quindi che avere una sola certezza: che attueremo ogni possibile iniziativa giuridica e sindacale in linea con la politica di equilibrato sviluppo della rete distributiva sempre coerentemente da noi perseguita».
da: www.ascom.vi.it
link originario: http://www.ascom.vi.it/a_675_IT_8455_1.html
Le voci di un progetto in questo senso erano giunte fin dall’agosto scorso all’Ascom, che con due distinte lettere (il 7 agosto, il 16 settembre) aveva chiesto all’amministrazione un incontro per verificare la notizia. Successivamente, il primo ottobre, venuta a conoscenza dell’esame del progetto nel corso del consiglio comunale, l’associazione di via Faccio aveva richiesto di ricevere copia della relativa documentazione. Per tutta risposta il sindaco Mirco Bolis e la sua giunta, invece di aprire un dialogo con gli operatori commerciali dell’area, sono andati dritti per la loro strada senza alcun confronto e senza fornire alcuna spiegazione o informazione. «Non si capisce il perché di tutto questo mistero, anche se personalmente non sono di quelli che amano il proverbio “a pensar male ci si indovina”. Ritengo invece importante sottolineare che questo modo di agire non rispetta un principio guida che dovrebbe ispirare tutta l’azione politico-amministrativa, vale a dire quello della trasparenza. E ciò è ancor più grave se consideriamo che l’impatto di una struttura delle dimensioni e con caratteristiche di cui, ancora, si sente parlare solo per “sentito dire”, sarebbe dirompente sia sulla rete distributiva esistente, sia sulla viabilità e, non ultimo, sul contesto urbano del paese e dei comuni contermini... Leggo - prosegue Rebecca - che in cambio dell’outlet il sindaco Mirco Bolis intende ricevere dalla società costruttrice un bel centro anziani, strade e piste ciclabili. Mi rallegro con i cittadini di Grisignano di Zocco per la lungimiranza del loro primo cittadino, ma mi chiedo se tutto questo basterà per compensare gli ovvi disagi, da un punto di vista ambientale, viabilistico ed in sostanza di qualità della vita, per l’arrivo, si dice, in un paese di 4mila abitanti, di ben un milione di visitatori».
Al di là del problema locale, è chiaro infatti che un outlet come quello prospettato dovrebbe influenzare i comportamenti di acquisto di un numero assai vasto di consumatori, in tutta la provincia e probabilmente anche del Padovano. Sulle conseguenze per il settore commerciale di questa scelta, però, non si ravvisa, nel comportamento del sindaco di Grisignano, la benché minima riflessione: «Ogni pubblico amministratore – conclude il presidente della Confcommercio - dovrebbe basare le proprie decisioni anche su di un forte raccordo con il territorio in cui vive, che non è solo il campanile del proprio comune. Da anni la nostra associazione dialoga con le istituzioni locali ragionando su un concetto basilare per lo sviluppo armonico del nostro territorio, che è l’ottica dell’area vasta. In questo progetto di Grisignano l’unica vastità da me ravvisata è data dall’ambizione di certi amministratori in scadenza di mandato, che vogliono evidentemente congedarsi dai loro concittadini con il “botto” e che invece rischiano, questa volta veramente, di far fare un brutto “botto” ad un intero territorio e ad un intero sistema economico. E ciò alla faccia del confronto costruttivo da tutti sempre virtuosamente invocato. Come Confcommercio provinciale non possiamo quindi che avere una sola certezza: che attueremo ogni possibile iniziativa giuridica e sindacale in linea con la politica di equilibrato sviluppo della rete distributiva sempre coerentemente da noi perseguita».
da: www.ascom.vi.it
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mercoledì 3 febbraio 2010
Per non dimenticare il caso Unipol-Bnl
«Follow the money»: segui i soldi, dice un adagio del giornalismo anglosassone. È un detto che spiega alla perfezione come funziona la macchina della politica “democratica”: non solo, come comunemente si pensa, oliata da industrie, banche, lobby; ma intrecciata ad esse in una commistione che, se fatta emergere dall’ombra in cui viene sapientemente tenuta, fa apparire i partiti quali comitati d’affari mascherati.
Uno scampolo di questa realtà ancora misconosciuta è l’intervista a Giovanni Consorte, l’ex numero uno di Unipol, apparsa sul Corriere dell’altro giorno («Consorte: sacrificato da D’Alema e Veltroni», Corriere della Sera, 30 gennaio 2010). Consorte è l’uomo della finanza rossa che aveva tentato la scalata alla Bnl in accordo con l’ex presidente di Bankitalia, Antonio Fazio, ammucchiandosi alla banda dei furbetti del quartierino. Assieme a costoro è imputato di aggiotaggio. Eppure opinioneggia come fosse un leader politico. Sentite qua cosa dice della situazione a Bologna: «Serve un candidato di qualità. Con una base culturale e professionale di rilievo. Che abbia gestito aziende, situazioni complesse, non chiacchiere. Deve essere conosciuto e stimato, e magari andare bene a parte dell’opposizione».
Sul Pd, il suo partito, ha le idee chiare e le espone da azionista forte dell’azienda guidata, almeno ufficialmente, da Bersani: «Il Pd è un partito non coeso, che non esprime un indirizzo chiaro. Gli effetti si vedono purtroppo anche a Bologna. E tutto questo ha una data d’inizio... La guerra contro la scalata a Bnl. Il Pd non era ancora nato, ma la sua mancanza di una linea e di una azione politica precisa ha origine da quella vicenda». Immancabile, ecco l’ex amministratore delegato di una compagnia assicurativa che si erge a intellettuale: «Sta per uscire un libro, curato dal professor Paolo Pombeni e da me, che individua l’anomalia italiana nell’assenza di un partito riformista, laico, socialista, garantista di tradizione europea».
Naturalmente non gli passa neanche per l’anticamera del cervello che l’anomalia possa consistere nel fatto che ricorda lui stesso, e cioè che contro l’operazione di conquista della Bnl «si scatenò la reazione delle forze economiche e politiche», ovvero i «vertici del Pd alla sua nascita», svelando il legame di ferro fra piani finanziari e strategie politiche. Un j’accuse in piena regola contro i compagni: «Si trattava in realtà di una bella operazione industriale. Ma la componente cattolica del futuro Pd posso capirla, temeva un eccessivo potere degli ex Ds. Le dinamiche delle attuali difficoltà del Pd erano già presenti. Veltroni, Fassino, D’Alema: mi hanno abbandonato. Sacrificato sull’altare del primato della politica. C’era da far nascere il Pd, e a marzo 2006 c’erano le elezioni». Il primato della politica? Questo signore vorrebbe farci credere che gente della pasta di Veltroni, Fassino e D’Alema, cresciuti alle Frattocchie e a Botteghe Oscure, fra collateralismi cooperativi, lottizzazioni televisive e consociativismi di ogni genere, non solo facessero il tifo, ma non fossero d’accordo con lui nell’assalto al chiuso mondo finanziario italiano? Invece è proprio così. Consorte sostiene, con serietà, la barzelletta secondo cui «quei due (Fassino eD'Alema, ndr) non sapevano nulla dell’operazione. Facevano il tifo, ma questo è un altro discorso». E l’ormai celebre frase di Fassino, «abbiamo una banca»? «La sentirete al processo, quella telefonata, nella sua interezza. Era entusiasmo, non complicità. Quando esplose il sisma, non ho avuto una chiamata, una parola. Ma adesso ho chiesto che vengano in aula a motivare il loro comportamento successivo al lancio dell’Opa». Ha il dente avvelenato, Consorte.
E allora, alla fine, il succo della verità lo distilla come veleno per i sepolcri imbiancati che cianciano di indipendenza fra politica e affari: «Parliamoci chiaro: potere economico e politico non sono mai disgiunti. Senza il secondo non si va da nessuna parte, come dimostra il fallimento dell’operazione Unipol-Bnl... Saremmo diventati un braccio finanziario a sostegno del governo, e mancava poco alle elezioni del 2006 vinte dal centrosinistra». Più chiaro di così.
Alessio Mannino
link di riferimento
per gentile concessione de www.ilribelle.com; 2 febbraio 2009
Uno scampolo di questa realtà ancora misconosciuta è l’intervista a Giovanni Consorte, l’ex numero uno di Unipol, apparsa sul Corriere dell’altro giorno («Consorte: sacrificato da D’Alema e Veltroni», Corriere della Sera, 30 gennaio 2010). Consorte è l’uomo della finanza rossa che aveva tentato la scalata alla Bnl in accordo con l’ex presidente di Bankitalia, Antonio Fazio, ammucchiandosi alla banda dei furbetti del quartierino. Assieme a costoro è imputato di aggiotaggio. Eppure opinioneggia come fosse un leader politico. Sentite qua cosa dice della situazione a Bologna: «Serve un candidato di qualità. Con una base culturale e professionale di rilievo. Che abbia gestito aziende, situazioni complesse, non chiacchiere. Deve essere conosciuto e stimato, e magari andare bene a parte dell’opposizione».
Sul Pd, il suo partito, ha le idee chiare e le espone da azionista forte dell’azienda guidata, almeno ufficialmente, da Bersani: «Il Pd è un partito non coeso, che non esprime un indirizzo chiaro. Gli effetti si vedono purtroppo anche a Bologna. E tutto questo ha una data d’inizio... La guerra contro la scalata a Bnl. Il Pd non era ancora nato, ma la sua mancanza di una linea e di una azione politica precisa ha origine da quella vicenda». Immancabile, ecco l’ex amministratore delegato di una compagnia assicurativa che si erge a intellettuale: «Sta per uscire un libro, curato dal professor Paolo Pombeni e da me, che individua l’anomalia italiana nell’assenza di un partito riformista, laico, socialista, garantista di tradizione europea».
Naturalmente non gli passa neanche per l’anticamera del cervello che l’anomalia possa consistere nel fatto che ricorda lui stesso, e cioè che contro l’operazione di conquista della Bnl «si scatenò la reazione delle forze economiche e politiche», ovvero i «vertici del Pd alla sua nascita», svelando il legame di ferro fra piani finanziari e strategie politiche. Un j’accuse in piena regola contro i compagni: «Si trattava in realtà di una bella operazione industriale. Ma la componente cattolica del futuro Pd posso capirla, temeva un eccessivo potere degli ex Ds. Le dinamiche delle attuali difficoltà del Pd erano già presenti. Veltroni, Fassino, D’Alema: mi hanno abbandonato. Sacrificato sull’altare del primato della politica. C’era da far nascere il Pd, e a marzo 2006 c’erano le elezioni». Il primato della politica? Questo signore vorrebbe farci credere che gente della pasta di Veltroni, Fassino e D’Alema, cresciuti alle Frattocchie e a Botteghe Oscure, fra collateralismi cooperativi, lottizzazioni televisive e consociativismi di ogni genere, non solo facessero il tifo, ma non fossero d’accordo con lui nell’assalto al chiuso mondo finanziario italiano? Invece è proprio così. Consorte sostiene, con serietà, la barzelletta secondo cui «quei due (Fassino eD'Alema, ndr) non sapevano nulla dell’operazione. Facevano il tifo, ma questo è un altro discorso». E l’ormai celebre frase di Fassino, «abbiamo una banca»? «La sentirete al processo, quella telefonata, nella sua interezza. Era entusiasmo, non complicità. Quando esplose il sisma, non ho avuto una chiamata, una parola. Ma adesso ho chiesto che vengano in aula a motivare il loro comportamento successivo al lancio dell’Opa». Ha il dente avvelenato, Consorte.
E allora, alla fine, il succo della verità lo distilla come veleno per i sepolcri imbiancati che cianciano di indipendenza fra politica e affari: «Parliamoci chiaro: potere economico e politico non sono mai disgiunti. Senza il secondo non si va da nessuna parte, come dimostra il fallimento dell’operazione Unipol-Bnl... Saremmo diventati un braccio finanziario a sostegno del governo, e mancava poco alle elezioni del 2006 vinte dal centrosinistra». Più chiaro di così.
Alessio Mannino
link di riferimento
per gentile concessione de www.ilribelle.com; 2 febbraio 2009
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