giovedì 3 febbraio 2011

Marghera come la Somalia

«... A questo punto è ipotizzabile pensare che Marghera sia ben più di un disgraziato sito per lo stoccaggio di reflui nocivi. Marghera ha l’odore di un vero e proprio santuario tossico le cui cripte non possono aperte. Se la cosa accadesse potrebbe venir fuori la stessa melmosa realtà che è già emersa in altre realtà industriali del nord in cui lo smaltimento illegale dei rifiuti non è una eccezione. È la norma in un mondo industriale infetto da un virus letale. Un virus per il quale le imprese, la maggior parte, non possono fare gli utili che programmano, se non smaltiscono irregolarmente, se non evadono il fisco, se non lesinano sulla sicurezza, se non trovano scorciatoie di comodo col favore della politica e delle istituzioni. Insomma aprire questo vaso di Pandora veneziano significherebbe mettere alle corde un intero sistema culturale prima che produttivo. E di fronte ad un blocco sociale così compatto e diffuso non c’è magistratura che tenga. Arzignano docet». Ho usato queste parole per chiudere l’ultimo capitolo della mia inchiesta sull’affaire Marghera. L’inchiesta è stata pubblicata. Ma al di là delle peripezìe giudiuziarie un giorno mi piacerebbe che in questa città si discutesse di un tema ancor più dirimente. Questa non è solo una storia di malaffare vero o presunto. In questa piccola grande storia vicentina c’è tutta la contraddizione nella quale la società occidentale ha portato il resto del globo. Si possono fare inchieste, approfondimenti, si può chiamare Marco Travaglio, Report, Exit, il Guardian; si può fare appello ad un tir di premi Pulitzer. Ma i giornalisti, se fanno bene il loro mestiere, raccontano i fatti, spiegano le dinamiche. Ma c’è un altro piano da considerare, più profondo. Tutti quanti dobbiamo domandarci dove vogliamo arrivare. In una società dove l’unico senso è dato dal denaro, è normale che episodi del genere si verifichino. Mutatis mutandis la storia di Marghera non è poi tanto diversa da quella dei rifiuti finiti in Somalia. Io credo che siano il modello di sviluppo e la cifra culturale ad essere ormai fuori scala. Ma su queste cose dovremmo cominciare ad interrogarci solo dopo avere fatto un serio esame di coscienza che al momento è impossibile. I cattivoni di turno alla fine non sono null’altro che gli incaricati, bene remunerati, di una società ipocrita che non vuole vedere i prodotti di scarto, necessari per mantenere in vita il suo way of life sempre più precario per altro. In realtà il mondo nella sua accezione economica non è che un planetario falso in bilancio.

Marco Milioni
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